È tornato Humans of New York e ci fa andare indietro nel tempo

Il blog fotografico di Brandon Stanton, poi diventato un best-seller, è stato tra i più popolari di sempre: Humans of New York ha trasformato il Grand Central nella più grande installazione che New York ha visto in decenni.

Se sei un newyorkese potresti vedere te stesso, o una gigantografia di te stesso, occupare per due settimane i muri del Grand Central Terminal — la storica stazione ferroviaria di Midtown Manhattan, con la sua hall monumentale attraversata ogni giorno da oltre mezzo milione di persone.

È un grande ritorno. Humans of New York è stato prima un blog cliccatissimo, in un’epoca in cui Instagram contava pochissimo, e poi un bestseller globale, con mille imitazioni e seguaci: una raccolta di fotografie, voci e storie di persone comuni direttamente dalle fittissime strade della Grande Mela — un progetto che oggi trova nuova vita anche nel nuovo libro fotografico Dear New York che, edito da St. Martin’s Press, già prima di uscire aveva superato i 30mila preorder. 

Brandon Stanton, Dear New York, Grand Central, New York, 2025. Foto Ahmed Gaber

Brandon Stanton, lo scrittore e fotografo che sta dietro al progetto, e che incarna quel mito gioioso della Grande Mela come terra di possibilità, ha raccontato ad ARTnews in un’intervista: “La tesi generale è che tutta New York è il luogo in cui il mondo si riunisce in un unico posto. E c'è qualcosa di quasi sacro in questo: è come un microcosmo, una prova del concetto che l'umanità può andare d'accordo anche quando è costretta in spazi ristretti.” 

La tesi generale è che tutta New York è il luogo in cui il mondo si riunisce in un unico posto.

Brandon Stanton

Brandon Stanton, Dear New York, Grand Central, New York, 2025. Foto Ahmed Gaber

La storia di Stanton è incredibile quasi quanto le sue fotografie, e altrettanto lunga: comincia a scattare nel 2010, ritraendo lavoratori e passanti della classe media newyorkese, pubblicando tutto sul suo blog, corredato da brevi citazioni tratte dalle conversazioni con gli “umani di New York”. Instagram era appena nato, e Facebook non ospitava molti contenuti curati o editoriali. Il blog era lo stato dell’arte della comunicazione digitale in un mondo in cui lo smartphone si stava ancora affermando. 
Fast forward al 2013: il New York Magazine definisce il progetto “the biggest thing on the internet”, e da allora per Stanton è tutto in discesa. 

Brandon Stanton, autore di Humans of New York e Dear New York

Dear New York, la sua ultima opera, è una vera e propria celebrazione della città su larga scala. Occupa l’intero Grand Central Terminal: dalle banchine della metropolitana alle pareti di Vanderbilt Hall, fino ai 150 schermi digitali del Main Concourse, che per due settimane hanno abbandonato le pubblicità e gli annunci della Metropolitan Transportation Authority per diventare parte dell’installazione. Sui muri scorrono ritratti e testi tratti da Humans of New York, trasformando lo snodo ferroviario più iconico della città in una lettera d’amore collettiva. Vanderbilt Hall ospita inoltre due mostre parallele: una dedicata a fotografi professionisti, selezionati da una open call, e una che riunisce oltre seicento lavori di studenti delle scuole pubbliche di New York.

Brandon Stanton, Dear New York, Grand Central, New York, 2025. Foto Ahmed Gaber

Durante le ore non di punta, pianisti della Juilliard School eseguono brani dal vivo accompagnando l’esperienza visiva. In tutto, più di mille persone hanno contribuito alla realizzazione del progetto, diretto da David Korins – l’ideatore dell’exhibition design di Immersive Van Gogh – e progettato graficamente da Pentagram, lo studio londinese che lavora per tutti dal The New York Times alla Tate Modern. L’opera è realizzata in collaborazione con la Metropolitan Transportation Authority, la Juilliard e il Department of Education della città. 

Quello di Humans of New York è un mondo che oggi sembra remoto, quasi ingenuo, ed è difficile per chi si è svegliato già in questo presente capirne fino in fondo la tenerezza.

Quando uscì la prima edizione di Humans of New York era il 2013: le magliette logate “I <3 NY” si indossavano ancora senza ironia, e gli scassinatori non si travestivano da agenti Ice per spaventare i latino-americani; il fentanyl lo trovavi solo in farmacia, e la città aveva già il suo odore distintivo, ma c’erano pur sempre i profumi di Abercrombie e Hollister a tenerti compagnia per le strade. Per capire il sentimento comune che può generare un’opera d’arte pubblica firmata da uno dei fotografi simbolo del secondo decennio dei Duemila, è impossibile prescindere da queste coordinate della cultura di massa. 


Quello di Humans of New York è un mondo che oggi sembra remoto, quasi ingenuo, ed è difficile per chi si è svegliato già in questo presente capirne fino in fondo la tenerezza. Quando si legge qualche commento sotto i post che presentano l’opera però diventa tutto più chiaro: “I hope that people still care about being human”, oppure “Those New York days were so holistic.” 

Brandon Stanton, Dear New York, Grand Central, New York, 2025. Foto Ahmed Gaber

Dear New York appartiene a un'epoca di dediche alla città (e agli Stati Uniti) — un po’ come il Grand Central, un po’ come la candid photography per le strade. Ed è forse per questo che piace, perché restituisce alla città un ritratto affettuoso, non disincantato. 
D’altronde, come scrivono gli autori del progetto: “Quando il mondo sembra essere sull'orlo del baratro, New York è ancora qualcosa da celebrare”. E, almeno fino al 19 ottobre, data in cui le fotografie che abitano il Grand Central spariranno, questa considerazione sembra di nuovo essere vera. 

Immagine di apertura: Brandon Stanton, Dear New York, Grand Central, New York, 2025. Foto Ahmed Gaber

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