Ultimo Danzón a Città del Messico

Il nuovo libro della fotografa Chiara Bonetti, One Last Danzón, è il pretesto e l’occasione per scoprire e sostenere una cultura vivace che con la crisi economica rischia di scomparire.

È domenica pomeriggio al Salón Los Ángeles, nel quartiere di Nuestra Señora de Los Ángeles, in zona Guerrero a Città del Messico. E come ogni domenica pomeriggio dal 1937, va in scena lo spettacolo del Danzón, uno dei balli più rappresentativi e coesivi del Paese.

Stanca delle serate di musica elettronica — tra l’altro di stile prettamente statunitense ed europeo — a cui aveva partecipato fino ad allora nel sud del Messico, su invito di amici la fotografa Chiara Bonetti fa quindi il suo ingresso nello sfavillante mondo di questo coloratissimo ballo tradizionale e ne resta incantata, tanto da decidere di dedicare tutto il tempo che ha ancora a disposizione in città per raccontarne lo spirito, i templi e i protagonisti. Non sa ancora di aver avuto la fortuna e l’intuizione di documentarne quelli che solo poche settimane più tardi si riveleranno probabilmente i suoi ultimi giorni: parliamo infatti ovviamente di tempi pre-Covid, all’inizio del 2020, prima che la sala, come tutte le altre in città, nel paese e nel mondo, venisse chiusa per far fronte alla diffusione del virus. L’idea di tornare a Città del Messico per portare avanti il suo lavoro sfuma dunque nelle restrizioni che hanno poi congelato gli spostamenti, internazionali e non, e che l’hanno costretta a restare a Berlino, dove vive e lavora e dove ha deciso comunque di dare alla lunga serie di fotografie già realizzate una prima possibile forma editoriale.

Ne è nato One Last Danzón, il piccolo e delizioso libro autoprodotto (e attualmente in pre–order) in occasione del cui lancio abbiamo fatto due chiacchiere con l’autrice.

Solitamente divisa tra Germania e Italia, Chiara era in Messico per documentare il lavoro della pittrice Beatriz Morales, e di Danzón non sapeva nulla, mentre ora ne parla con un entusiasmo a metà tra l’aficionada e l’esperta.

“Non avevo la minima idea di cosa fosse il Danzón, né tanto meno sapevo piroettare in coppia. Eppure, appena entrata in questa sala da ballo ho sentito una sensazione davvero famigliare e accogliente. L’energia sprigionata dal ballo, gli eccentrici outfits, l'accoglienza gentile delle persone e le loro storie di vita vissuta hanno catturato completamente la mia curiosità.”

Chiara Bonetti, David al Salon Los Angeles, dalla serie One Last Danzón, 2020
Chiara Bonetti, David al Salon Los Angeles, dalla serie One Last Danzón, 2020

La storia dice che questa danza nasce nel XIX a Cuba, dove è riconosciuta come ballo nazionale, dall’incontro tra gli stili importati dagli immigrati inglesi e francesi e la cultura di origine africana, e arriva poi in Messico negli anni ’40 del secolo successivo, diventando presto una moda che nel tempo catturerà il pubblico più eclettico, dai politici agli sportivi, da esponenti del mondo dello spettacolo a membri della classe operaia, dall’immancabile Frida Khalo a Che Guevara e Gabriel García Márquez. Nel tempo il suo successo, e la sua notorietà, vengono poi surclassati dal Mambo — al cui alfiere Pérez Prado, celebre musicista Cubano, è dedicato un altarino proprio nella grande sala del Los Ángeles— che in origine era solo una variazione ritmica e strumentale di una delle sezioni che formano la composita anche se alquanto rigida forma del Danzón. Oggi in Messico il Danzón sopravvive come parte integrante della vivace cultura locale e, praticato senza soluzione di continuità e con propensione democratica e trasversale fin dal suo arrivo, è perfino più popolare che a Cuba, tanto che il brano del 1994 Danzón n.2, del compositore messicano Arturo Màrquez, è considerato una sorta di inno nazionale ufficioso.

Questa danza nasce a Cuba e arriva in Messico negli anni ’40, diventando presto una moda che nel tempo catturerà il pubblico più eclettico, da esponenti del mondo dello spettacolo a membri della classe operaia, da Frida Khalo a Che Guevara e Gabriel García Márquez.

Fin qui le notazioni tecniche. Ma quel che colpisce di più nelle immagini di Bonetti sono decisamente gli esuberanti personaggi e le pittoresche architetture che più che fare da semplice scenografia sono a loro modo protagoniste di questa cultura. Nel primo caso una certa varietà è forse scontata, ma tra tutti restano sicuramente più impressi i tipici Pachucos: il termine deriva dalla città di El Paso, detta Pueblo Chuco o El Chuco, e in origine denotava i messicani che, immigrati negli Stati Uniti, assumevano un atteggiamento e soprattutto uno stile ribelle — i cosiddetti zoot suit indossati anche da un giovane Malcom X e resi celebri da film come The Mask — come forma di appartenenza e autodeterminazione, ma anche di opposizione da un lato ai valori tradizionalisti di una patria ormai lontana e dall’altro al razzismo più o meno smaccato che dovevano fronteggiare nella presunta ‘terra delle opportunità’. Di quella spinta rivoluzionaria oggi resta sicuramente un senso di anticonformismo però riassorbito dal folklore locale — quindi come valore legato al passato e alla tradizione — in una paradossale inversione delle parti.

Chiara Bonetti, One Last Danzón, 2021
Chiara Bonetti, One Last Danzón, 2021

E se personaggi come David, “un blogger sull’ottantina che ha un radio online e che si aggira tra i tavolini di ogni salone con un minuscolo microfono pronto ad intervistare i suoi ospiti” o Mario, con le sue lezioni, sono stati i ciceroni di Chiara in quest’avventura danzante, vale la pena soffermarci sulla curiosa genesi di alcune delle strutture che gli fanno oggi da cornice, e che costituiscono dei veri e propri templi del ballo.

Prima del 1937, ad esempio, il Salón Los Ángeles era un deposito di carbone che fungeva anche da autorimessa, mentre ora il suo pavimento a scacchi bianchi e neri e i muri rosa e rossi sono indissolubilmente legati alla cultura del Danzón.

“Il signor Miguel Nieto Alcantara, suo fondatore, decise di trasformare questo spazio in una sala che offrisse accesso alla danza in quartiere popolare come quello di Nuestra Señora de Los Ángeles,” spiega Chiara. “Da allora è rimasto praticamente invariato. L'edificio si sviluppa su un piano terra di forma rettangolare. Al centro si trova la pista da ballo intorno alla quale ruotano il palco con sotto le banchine di attesa, l'area dei tavolini che circonda la pista, i due bar e, accanto all'entrata, un pittoresco guardaroba con annesso il negozio di scarpe da ballo. I muri sono decorati da numerosi quadretti appesi come testimonianza di un passato importante: trofei di competizioni musicali, vecchi flyers autografati da VIP dello spettacolo e foto ricordo di musicisti o ballerini famosi.”

Conosciuto anche come “il palazzo del ballo”, El California Dancing Club vanta invece un’origine più affine alla musica, dato che era nato come cinema: costruito negli anni ’30, fu convertito in sala da ballo nel 1954, ma mantenne intatti la maggior parte degli elementi d’arredo e delle caratteristiche originali.

“Le pareti e i sedili di legno sono rimasti invariati, così come il pavimento di marmo e la bellissima insegna luminosa all'entrata che dà il benvenuto agli ospiti ed annuncia i musicisti della serata. Anche qui la pista da ballo è al centro, sormontata da un enorme cuore rosso che decora il soffitto, e intorno alla pista si trovano i tavolini ai quali gli ospiti si riposano tra un ballo l’altro.

Qui la peculiarità è però sicuramente il piano rialzato, costruito come una tribuna/loggia che si affaccia sulla pista in basso. Questa zona è principalmente frequentata da quelli che vogliono imparare a ballare, poiché da qui si può osservare il palco e la pista restando però appartati. C'è poi un angolo molto curioso che rimane sempre in penombra e che era usato dagli amanti in cerca di intimità: qui talvolta trovavano anche sfogo i diverbi scatenati dalle gelosie per una donna, che comunque non dovevano rovinare l'atmosfera gioiosa della sala principale.”

El California Dancing Club nasce come cinema: costruito negli anni ’30, fu convertito in sala da ballo nel 1954, mantenendo intatti la maggior parte degli arredi

Ed è proprio la posizione della donna nella cultura Danzón ad appassionare Chiara. Tradizionalmente, infatti, in queste sale da ballo le donne hanno sempre potuto godere di grande rispetto e indipendenza, di una posizione centrale e privilegiata che in Messico non è affatto scontata. In un paese dove per arginare fenomeni violenti che spesso sfociano nel femminicidio il trasporto pubblico prevede carrozze dedicate esclusivamente alle donne, e dove c'è una legge che permette alle donne sole al volante di non fermarsi al semaforo rosso la sera se la strada è libera, è per esempio molto significativo vedere ogni sera la signora Nieto, la padrona del Los Ángeles, che a più di ottant’anni anni non si sposta dall’entrata del club.

“È una specie di buttafuori gentile,” dice Chiara. “Nonostante l’area non sia considerata sicura, lei non smette mai di accogliere i suoi ospiti. Fino al 1953 le donne in Messico non avevano il diritto al voto, ma potevano arrivare sole al Salón Los Ángeles e scegliere il proprio compagno di danza senza essere malviste”.

La violenza, per cui a torto o ragione il Messico è spesso additato, non trova del resto praticamente mai spazio in club come questi, dove è proibita la vendita di alcolici e che non sono interessati dalle dinamiche dello spaccio.

Chiara Bonetti, One Last Danzón, 2021
Chiara Bonetti, One Last Danzón, 2021

È quindi ancora più triste considerare come, per cause economiche che sono sotto gli occhi di tutti, spazi come il Los Ángeles, il California o il Salón Sociales Romo, altro protagonista del lavoro di Bonetti, rischino di restare chiusi anche una volta che l’emergenza pandemica sarà stata arginata. Ed è proprio in quest’ottica che, col suo stile pulito, allegro e ironico (la copertina diventa un poster dove è possibile attaccare le figurine dei diversi personaggi ritratti nel libro, un omaggio di Bonetti ai vecchi poster delle serate danzanti che costellano le pareti dei club) One Last Danzón rappresenta anche il pretesto e l’occasione non solo per mettere in luce questa vivace cultura, ma anche per sostenerla attraverso una raccolta fondi.

In un momento in cui del trascorrere del tempo è fin troppo facile considerare solo l’accezione più negativa, Chiara conclude:

“Questi spazi in cui il tempo sembra avere perso la sua importanza, sono preziosi non solo per la comunità che gli ruota intorno, ma più in generale perché esempi concreti e contagiosi di joie de vivre. Sono a mio avviso un’eredità fondamentale, che serve a ricordarci quanto è importante convivere coltivando le passioni che ci tengono attivi”.

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