Roma vista da Sarah Moon, Alex Majoli e altri grandi fotografi

Attraverso una nuove serie di residenze artistiche il Polo per il contemporaneo di Roma Capitale affida allo sguardo di cinque fotografi di fama internazionale il compito di interpretare la Città Eterna.

“Fotografia. Nuove produzioni 2020 per la collezione Roma”, è il titolo un po’ didascalico ma efficace di un’operazione complessa e ben riuscita, quella con cui l’Assessorato alla Crescita culturale di Roma Capitale e l’Azienda Speciale Palaexpo hanno promosso la ripresa di un discorso cominciato e lasciato poi aperto dal Fotografia Festival Internazionale di Roma.

Quella raccolta da Francesco Zizola, a cui ne è stata affidata la curatela, è infatti l’eredità costruita tra il 2003 e il 2017 su una serie di residenze ideate da Marco Delogu e Zone Attive che hanno portato a Roma alcuni tra gli esponenti più importanti dell’arte fotografica, da Josef Koudelka a Olivo Barbieri, da Martin Parr a Gabriele Basilico, da Graciela Iturbide a Roger Ballen, da Alec Soth a Paolo Pellegrin, da Paolo Ventura a Simon Roberts, solo per fare qualche nome.

E Zizola rilancia, è il caso di dirlo, alzando la posta con un invito esteso non ad uno ma a ben cinque nomi di caratura internazionale, l’equilibrio tra le cui personalità ben distinte e complementari è sicuramente uno dei punti di forza di questa nuova e multiforme produzione: Sarah Moon, Alex Majoli, Martin Kollar, Nadav Kander e il giovane Tommaso Protti.

In mostra nel rinnovato padiglione 9a del Mattatoio—uno dei quattro spazi affidati da Roma Capitale all’Azienda Speciale Palaexpo per i prossimi vent’anni—e raccolte in un prezioso catalogo edito da Postcart, 130 opere realizzate ad hoc che inaugurano un nuovo capitolo del neonato Polo espositivo dell’arte e della cultura contemporanea.

I fotografi

Sarah Moon
Dietro l’apparente informalità del titolo dato alla sua serie (Diario romano) c’è tutto il senso della studiata delicatezza, della conturbante pacatezza e della elegante riservatezza di Sarah Moon. Graziato da una modestia della pratica che scompare nella ricercatezza estetica delle sue versioni stampate ed esposte, il lavoro di Moon ha attraversato in punta di piedi la storia della fotografia contemporanea, muovendosi con leggerezza e naturalezza tra la ovvia (ma è poi proprio così?) classe del mondo della moda e la più concreta e sobria bellezza delle cose comuni, della città, della natura. Se però c’è una parola che da sola può riassumere la ricerca di Moon è tempo: il tempo della contemplazione, il tempo dell’attraversamento, perfino il tempo dello sviluppo delle sue Polaroid, la cui caratteristica di istantaneità è stata resa ormai obsoleta dal digitale.

E il tempo della realtà, ovviamente e su tutto, il tempo che passa, il tempo di chi fotografa e quello di chi è fotografato, il tempo che fa di una città un luogo senza tempo e quello che annulla in uno scatto la distanza tra passato e presente, tra è stato ed è. La fotografia di Moon si muove proprio su quella sottile linea di demarcazione, quella pelle—elemento di separazione tra un dentro e un fuori, quindi, tra l’inconscio e l’evidenza—a cui si riferisce l’etimologia della parola pellicola, come Moon stessa fa notare. E col suo lavoro su Roma, l’artista francese può fare un passo in più: nella manipolazione della superficie delle fotografie risiede infatti un’ulteriore compenetrazione con l’oggetto della sua visione, e i segni lasciati dalla sua mano si sovrappongono idealmente a quelli lasciati dal tempo sulle superfici della città.

Alex Majoli
Nel suo capitolo Alex Majoli approfondisce con intensità e al contempo leggerezza un discorso sulla teatralità del reale che, attraverso l’apparentemente semplice uso del flash puntato su un mondo altrimenti inalterato, rappresenta la sua più recente e originale interpretazione della fotografia documentaria. E col suo continuo andirivieni tra classicità e modernità, tra autenticità e autorappresentazione, tra tipicità a globalizzazione, tra sfondi da cartolina e personaggi da romanzo, Roma è sicuramente il set più adatto a mettere in scena questo dichiarato gioco delle parti.

Ma in un doppio o triplo gioco di rimandi, se la città diventa palcoscenico e le persone attori, allora la vita diventa una volta di più rappresentazione: all’interno di questa rappresentazione, che Majoli crea in ogni inquadratura, è quindi la realtà stessa che—attraversata da gente in costume, punteggiata da telecamere e telefonini, abitata da spettatori all’interno di teatri (quindi di un teatro nel teatro), e a volte perfino trasmutata in realtà aumentata se non virtuale—ci ricorda che Roma stessa è un’opera teatrale, il film di se stessa. Del resto Fellini, che c’entra anche quando non c’entra, di Roma era un documentarista, come qualcuno ha detto. E ci sono anche echi di Aki Kaurismäki, del suo minimalismo romantico, delle sue scenografie fuori dal tempo (un simbolo del partito comunista qui, una tovaglia a quadri lì, abiti privi di una chiara connotazione un po’ ovunque), del suo uso sentimentale ma tecnicamente ineccepibile della luce e degli sguardi (che, nel suo cinema sintetico come nella fotografia vivida di Majoli, dicono più di qualsiasi parola).

Martin Kollar
Nel suo lungo viaggio a piedi da Bratislava a Roma, Kollar mette per una volta da parte quel vivo umorismo che—attraverso l’uso a volte impietoso e sempre curioso dello sguardo—caratterizza i lavori per cui è più noto, e compie un personale pellegrinaggio, un percorso di catarsi che muove dal bisogno interiore di elaborare un recente lutto. Memore più delle fatiche laiche e fataliste di un Bach o di un Herzog, e soffuso di insolita malinconia ma anche da un disincantato quanto costante rapporto con la morte, il suo diario visivo registrato on the road lungo il tragitto da quello che era l’antico confine settentrionale dell’Impero Romano a quella che viene ancora definita la città eterna, non è però scevro da ironia: i 1255 chilometri percorsi sono suddivisi in brevi sequenze, una per ognuno dei 42 giorni di cammino, che si mantengono sempre in perfetto equilibrio tra rappresentazione e interpretazione, tra civiltà e caos, tra vitalismo provinciale e intellettualismo autoriale, tra natura modificata dalla cultura e cultura permeata dalla natura.

Unico tra i cinque autori a non lavorare a e su Roma, Kollar tesse un discorso evocativo, dove la città, ereditiera di un capitale imperiale che è stato per secoli oggetto di sfrenate proiezioni mentali, è ancora una volta sempre immaginata, meta aspirata e agognata ma per l’appunto permeata da un desiderio che resta tale finché non si avvera, e in questo si riconferma idealmente centro del mondo a cui, come il titolo suggerisce, tutte le strade portano.

Nadav Kander
Sarà banale dirlo ma mai come in questa serie su Roma Nadav Kander porta in primo piano il suo approccio da archeologo del contemporaneo, così tante volte e decisamente già espresso in un percorso artistico che va dal lavoro sullo Yangtze a quello su Chernobyl, da Signs We Exist a Dust, perché sia chiaro che il passato non è qualcosa di lontano, di superato, di separato dal presente, ma è al contrario a questo sincretico. Aiutato in questo caso dall’incessante stratificarsi di storia che si posa e si accumula su tutte le superfici (fisiche, sociali, concettuali) della città, con spirito per metà scientifico e per metà poetico Kander riesce a osservare Roma sotto una nuova luce, tentativo tanto più complesso in quanto Roma è città vista per eccellenza.

Ma qui Kander fa se possibile anche di più, diventando egli stesso parte di quel pantheon di artisti che hanno lavorato a Roma: elaborando una volta per tutte la capacità tutta fotografica di portare alla luce—quando non letteralmente di scoprire—la realtà delle cose, si fa quindi una volta di più scultore che, mediante la forse trita ma sempre valida metafora della maieutica, tira fuori dalla materia quel che vi è già contenuto, mostrandoci paradossalmente quel che era già alla luce del sole.

Tommaso Protti
I bordi di Roma attraversati da Tommaso Protti sono geografici, fisici e materici solo a un livello di lettura molto superficiale, perché cosa sarebbe del suo lavoro se i bordi a cui fa riferimento non fossero anche quelli tra le persone e le loro aspirazioni, tra il presente sospeso e il futuro incerto, tra l’immobilismo sociale e politico e la concreta possibilità di cambiamento? Certo, in un’operazione di grande respiro e vocata alla suggestione come quella in atto, le sue immagini sono quelle che con più evidenza—ma un’evidenza che è a sua volta lo stigma che la fotografia documentaria porta inciso nel suo livello di lettura più superficiale—si fanno carico delle potenzialità oggettivanti del mezzo; ma sarebbe un banale errore liquidare questo lavoro come puramente documentario, a meno che non si riesca a dare finalmente per scontato che il limite tra realtà oggettiva e interpretazione personale è una pura astrazione intellettuale, e che è proprio dell’arte fotografica oltrepassare in maniera naturale e perfino connaturata qualsiasi confine di genere.

Confine, limite, bordo, parole chiave ma non sinonimi che informano il capitolo affidato a Protti, che accoglie la periferia romana—la nuova Roma apparentemente lontana anni luce dal centro (anche quello dell’attenzione)—con la cura maturata in anni di pratica, qui distillati in un racconto come al solito onesto, mai ammiccante, partecipato, mai distaccato.

Titolo:
Fotografia. Nuove produzioni 2020 per la collezione Roma
Date della mostra:
Dal 23 febbraio al 16 maggio 2021
A cura di:
Francesco Zizola
Sede:
Mattatoio
Indirizzo:
Piazza Orazio Giustiniani 4, Roma

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