Lasciami entrare: le viste con camera di Alec Soth

Per un anno il mutevole fotografo ha chiesto a perfetti sconosciuti la possibilità di essere ammesso a casa loro.

Un libro sulla bellezza nascosta di Bogotà da regalare alla figlia adottiva, nata in Colombia, una volta cresciuta. Una rivista di moda che mostra in realtà lo spazio che divide Parigi dal Minnesota, ma anche il fotografo dal suo soggetto. Un newspaper che riporta la cronaca itinerante e disincantata degli otto anni dell’amministrazione Bush attraverso tutti gli Stati Uniti. Un manuale su e per chi vuole scappare o è già fuggito dalla civiltà, nascosto tra le pagine intagliate di un insospettabile libro. Un album di (auto) ritratti realizzati a Tokyo in cinque giorni di assegnato per il New York Times senza mai lasciare la sua camera d’albergo. 

Da almeno quindici anni Alec Soth continua sistematicamente a sorprendere e depistare il suo fedele pubblico con lavori inclassificabili, per sua stessa ammissione affrontando soggetti e raccontando storie in modi lontani e diversi da quel che ci si può aspettare dalla Magnum, la celebre agenzia di cui fa parte dal 2008 e «che viene spesso associata ai fotografi di guerra».

Col suo ultimo lavoro, Soth sposta nuovamente i confini della fotografia documentaria oltrepassando la linea, ormai sempre più immaginaria, tra particolare e generale, tra privato e pubblico.  

Vince. New York City
Vince. New York City (MACK)

Pubblicato da MACK ed esposto contemporaneamente a Berlino, Minneapolis, New York e San Francisco, “I know How Furiously Your Heart is Beating” ruba il titolo a un verso di Wallace Stevens. Soth si muove infatti ancora una volta nella consapevolezza dello spazio che separa / lega due ego distinti, motivo ricorrente del poeta statunitense: in questo caso quelli del fotografo e del soggetto ritratto.

Chiedendo per un anno a perfetti sconosciuti la possibilità di essere ammesso a casa loro, in quella dimensione privata e soprattutto personale generalmente non condivisa con chi non faccia già parte della propria sfera di frequentazioni, Soth si pone al di fuori della sua comfort zone, in un luogo fotografico che è paradossalmente più insidioso di uno scenario di guerra.

Nell’incontro e confronto tra chi osserva e chi è osservato si instaura allora una tensione, che a differenza dell’atto teatrale cui a volte sembra rimandare, non si risolve nella cornice dell’immagine prodotta ma ne oltrepassa invece i bordi, forse addirittura persistendo nelle stanze in cui è stata generata, e certamente nello sguardo di noi spettatori meravigliati. 

 

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