Verità: l’ultima vittima

Da sempre inseguiamo la verità; oggi, tra soggettivismi e complessità, il tema si fa più urgente che mai. Ecco come due grandi artisti francesi come Jean-Léon Gérôme e Jules Joseph Lefebvre hanno provato a raffigurarne i paradossi.

Nella storia della storia del pensiero, la verità non è mai stata una linea retta, ma un orizzonte inafferrabile. Essa è la meta di un'incessante peregrinazione dello spirito umano, un'idea che, fin dalle prime albe della filosofia, si è sottratta a ogni facile definizione, per palesarsi in forma di enigma. Già Platone, nel suo mito della caverna, ci ha invitato a distogliere lo sguardo dalle ombre fugaci che danzano sulla parete, per volgerlo alla luce abbagliante della pura essenza. Nel corso dei secoli, questa ricerca è stata un cammino tortuoso, tracciato dalla rigorosa geometria della logica, illuminato dalla ragione e, più di recente, sondato con gli strumenti dell'empirismo. Eppure, in questo nostro tempo, segnato dall'eclissi della ragione e dal dilagare della post-verità, il vero sembra aver perso la sua solidità di fatto oggettivo per dissolversi in un'infinita galleria di narrazioni soggettive. Un fenomeno che si manifesta con un'inquietante drammaticità nelle grandi crisi contemporanee. 

Il dipinto Mendacibus et histrionibus occisa in puteo jacet alma Veritas (1895) di Jean-Léon Gérôme, che precede La verità che esce dal pozzo. Foto Jean-Léon Gérôme da Wikimedia Commons

Le guerre, da quella che lacera l'Ucraina al conflitto tra Israele e Hamas, sono il teatro in cui la verità è la prima e più illustre vittima. Ogni parte in causa edifica la propria narrativa, distorcendo gli eventi e usando immagini, video e resoconti come armi di propaganda, per forgiare una realtà parallela in cui la verità oggettiva è destinata a dissolversi. In questi contesti, la verità è un ostaggio, una merce di scambio, strumentalizzata per scopi personali, politici e di potere. Il rapporto tra la verità e la sua tormentata emersione ha trovato una magistrale rappresentazione nella pittura, con due opere che, sebbene distanti per ispirazione, offrono visioni potenti e complementari, quasi un dialogo tra il dramma e la speranza. Jean-Léon Gérôme dipinge un’opera stupefacente, interpretandola quasi come un gesto drammatico, un’invettiva morale, con la sua Verità che esce dal pozzo del 1896. Non un’allegoria, ma una vera e propria apparizione, uno spettro che si manifesta con la violenza di un’epifania.

La nostra epoca, nel suo fervore di informazioni e comunicazioni istantanee, ha visto la verità subire una progressiva eclissi (...) è diventata un'opzione tra le tante, un punto di vista tra infiniti altri.

La figura della verità non è una Venere ideale o una personificazione serena: è una realtà cruda, tormentata. Gérôme la spoglia di ogni bellezza convenzionale, la denuda non per celebrarne la purezza, ma per mostrarne la vulnerabilità e la violenza subita. Il suo corpo, scarno e nudo, non è un simbolo di perfezione, ma la testimonianza palpabile della spoliazione, l'ultimo relitto di una realtà oltraggiata e gettata nell'oblio.

Jean-Léon Gérôme, La verità che esce dal pozzo, 1896, Museo Anne de Beaujeu, Moulins. Foto Jean-Léon Gérôme - Marie-Lan Nguyen da Wikimedia Commons

Il pozzo è il luogo archetipico dell'oscurità e della menzogna, il regno sotterraneo dove l'uomo ha cercato di occultare ciò che non voleva vedere. E da questo abisso, la Verità emerge con un'espressione di orrore, quasi una maschera di follia, che riflette la disperazione di chi è costretto a confrontarsi con un mondo che la respinge. Non c'è trionfo in questa emersione, ma una fatica tragica. La luce che la colpisce non è una luce salvifica, ma una luce indifferente, quasi complice della sua disperazione. È una luce che non dona bellezza, ma evidenzia la tragicità della sua esistenza, il suo essere un corpo non desiderato, un'entità che disturba e viene osteggiata. Gérôme ci consegna un'opera che trascende il suo tempo e analizza un concetto, lo incarna in una figura sofferente, costretta a lottare per la propria sopravvivenza in un'epoca, e in un mondo, che preferisce l'ombra alla nuda, cruda realtà. È un grido di dolore, un atto d'accusa, che riecheggia in maniera sorprendente nella nostra contemporaneità, dove la verità continua a essere un'entità scomoda, spesso gettata nel pozzo delle menzogne e delle ideologie.

All'opposto, Jules Joseph Lefebvre, con la sua opera La verità (1870), offre una visione più serena e idealizzata. La sua verità è una figura femminile angelica, una dea che tiene in mano uno specchio. Lo specchio si trasforma in un simbolo di autoriflessione e conoscenza, uno strumento che riflette la luce e riflette allo stesso tempo l’immagine dello spettatore. La nudità della figura, a differenza di quella di Gérôme, è un simbolo di innocenza e purezza, non di vulnerabilità. Il suo sguardo è calmo, fiducioso, fiero, e la sua nudità, a differenza di quella della Gérôme, è simbolo di innocenza e purezza. 

Jules Joseph Lefebvre, La Verità, 1870, Museo d’Orsay, Parigi. Foto Jules Joseph Lefebvre - Art Renewal Center da Wikimedia Commons

La verità di Lefebvre si rivela con una grazia divina. In questa visione è un'entità luminosa e benevola, una forza che ha il potere di rischiarare le menti e di portare ordine nel caos. L'artista qui non denuncia, ma esalta il potere intrinseco della verità, la sua capacità di manifestarsi con la forza della sua stessa bellezza e purezza. L'atmosfera è di quiete e di rivelazione, un'immagine che invita alla contemplazione e alla fiducia dove il corpo diviene strumento, immagine e simbolo. La nostra epoca, nel suo fervore di informazioni e comunicazioni istantanee, ha visto la verità subire una progressiva eclissi. La velocità con cui le notizie si diffondono ha reso la verifica quasi impossibile, e la saturazione dei canali ha ridotto l'attenzione critica del singolo. La verità è diventata un'opzione tra le tante, un punto di vista tra infiniti altri, spesso giudicata in base alla sua convenienza piuttosto che alla sua attendibilità. In questo scenario, la ricerca della verità non è solo un compito filosofico o artistico, ma un imperativo etico.

Il nostro tempo è prigioniero di una profonda amnesia, una disattenzione collettiva che ci rende impermeabili alla verità. C'è una grande battaglia in atto, una crociata intellettuale in cui l'obiettivo non è un castello o una città, ma la nostra stessa mente. Non possiamo più permetterci la pigrizia, l'assuefazione al sentito dire e l'eco rassicurante delle nostre bolle. Dobbiamo disfare le certezze, esercitare il dubbio come un muscolo e affilare il nostro sguardo critico. Solo così, con l'umiltà di chi sa di non sapere, possiamo ascoltare le voci dissonanti e ricomporre il mosaico di una realtà sempre più complessa.