Per alcuni, si tratta dello scenario peggiore tra tutti i multiversi possibili; per altri, il risultato prevedibile di politiche sbagliate. Per altri ancora, un semplice ciclo storico. Al di là delle posizioni, il dato è che l’architettura non pensa più solo al “dopo” catastrofe, ma al durante, spostandosi sempre più verso soluzioni che tengono conto della guerra e della crisi climatica come condizioni permanenti.
Si moltiplicano così gli edifici con caratteristiche difensive integrate: spazi polifunzionali day-to-day che in emergenza diventano aree protette, progetti modulari di shelter e unità abitative temporanee per far fronte alle crisi climatiche e umanitarie.
La Holy Trinity Church, a Kyiv, per esempio, è una chiesa progettata da Aranchii Architects anche come rifugio antiaereo. Il progetto — che quest’anno ha ricevuto una menzione speciale degli organizzatori del premio “Creator of the Year” per il suo design — nasce per rispondere alle esigenze di sicurezza e di aggregazione comunitaria del distretto di Obolon a Kyiv, una delle aree più colpite dai missili russi. Comprende un rifugio antiaereo sotterraneo raggiungibile anche dalle aree esterne all’edificio, un giardino e una piazza pubblica. La pianta a croce rimanda alle chiese tradizionali ucraine, ma l’insieme è reinterpretato in chiave contemporanea: facciate semitrasparenti che amplificano la luce naturale e una croce zenitale che attraversa la cupola rendono l’edificio una sorta di lanterna urbana.
Sempre in Ucraina, che a questo punto appare come il centro di questo discorso, nel 2024 ha aperto a Kharkiv la prima scuola sotterranea “purpose-built”, sei metri sottoterra, per consentire lezioni in presenza anche durante gli attacchi missilistici. E a Kyiv, il Pavilion 13, ex padiglione modernista, è stato trasformato in hub culturale con una galleria inclinata sotterranea che può funzionare anche come rifugio. Anche alla Biennale di Architettura di Venezia di quest’anno, il padiglione ucraino ha portato al centro del dibattito le architetture del fronte, presentando un “dakh”: tetto legato alla tradizione vernacolare del Paese riadattato come “vernacolo d’emergenza”, per offrire riparo da una guerra combattuta, in gran parte, nei cieli.
Queste soluzioni architettoniche non arrivano a catastrofe avvenuta, ma convivono direttamente con il conflitto, si collocano dentro l’emergenza. Non post-belliche, ma intra-belliche.
E sempre alla Biennale, la Lettonia ha esposto alla stregua di arredi urbani una serie di dispositivi anticarro come cavalli di frisia e denti di drago. Lo spettro, ovviamente, è una possibile invasione via terra da parte dell’esercito russo. Il tutto proposto con una interessante veste color giallo fluo. Qualche visitatore è rimasto disorientato. D’altra parte, come è emerso da chiacchierate informali anche con vari curatori, l’Europa è già divisa tra paesi in cui solo le generazioni più anziane hanno conosciuto la guerra, e chi invece c’è praticamente nato dentro.
Come abbiamo potuto vedere durante i giorni degli scontri con l’Iran, quando da Tel Aviv arrivavano via Tiktok immagini di Bar Mitzvah festeggiati sottoterra e al sicuro, non fa eccezione Israele, paese che è in una guerra permanente in pratica dalla sua fondazione: qui gli asili e le scuole più recenti sono costruiti con rifugi integrati, dotati di filtri d’aria e connessioni digitali, così da trasformarsi in spazi protetti nel giro di pochi secondi. In Germania, il governo ha avviato piani per riconvertire parcheggi, stazioni e uffici in rifugi urbani, mentre la Svizzera sta aggiornando la sua rete capillare di bunker civili nata durante la Guerra Fredda.
Questa “architettura dual-use” non è del tutto nuova. La sua genealogia attraversa grandi nomi come Shigeru Ban, che dagli anni ’90 sperimenta rifugi temporanei in tubi di carta e pareti divisorie leggere per garantire privacy e dignità negli spazi di accoglienza. Il suo Paper Partition System è stato impiegato nei campi sfollati del terremoto di Kobe (1995), in quelli di Turchia-Siria (2023), e più recentemente negli shelter per gli evacuati degli incendi di Los Angeles (2025). Su Domus nel 2023 l’avevamo intervistato a proposito dei suoi progetti più recenti in Ucraina.
Ma c’è anche un’altra guerra che l’umanità sta combattendo e che probabilmente alla fine perderà: quella con la crisi climatica. Basti pensare al concorso voluto nel 2013 dopo l’uragano Sandy dalla Hurricane Sandy Rebuilding Task Force di Obama che ha premiato progetti come il BIG U di Bjarke Ingels Group: un anello verde e difensivo per proteggere Manhattan dall’innalzamento delle acque.
Quello che cambia da allora è che questa volta non siamo più nel registro del “post-disastro”: le soluzioni architettoniche non arrivano a catastrofe avvenuta, ma convivono direttamente con il conflitto, si collocano dentro l’emergenza. Non post-belliche, ma intra-belliche. Una condizione in cui chiese, scuole, musei e piazze diventano — inevitabilmente — anche rifugi, permanenti.
Immagine di apertura: Aranchii Architects, Holy Trinity Church, Obolon district, Kyiv, 2025. Courtesy Aranchii Architects
