Parigi, 27 settembre 1917. Nel ventre opulento della città, tra le ombre della Grande Guerra e i sussurri di una Belle Époque ormai tramontata, si spegne Hilaire-Germain-Edgar Degas. Il pittore che non amava la bellezza convenzionale. O meglio, la amava a modo suo, spogliandola di ogni orpello, di ogni compiacimento.
Pur condividendo il tavolo da gioco con gli impressionisti, Degas segue le proprie regole, spingendosi verso una partita più complessa, una sfida contro l’istante fuggente, il gesto involontario, la verità nascosta dietro il velo delle apparenze. Le sue ballerine, figure ricorrenti, non sono immagini idealizzate, ma personaggi reali, tra prove estenuanti e pause furtive, rivelando la fatica e la disciplina che si celano dietro la grazia apparente.
Troppo amante del disegno, troppo rigoroso nella composizione per abbandonarsi alla frenesia dell’en plein air. Degas era un classico travestito da moderno, un alchimista che trasformava la realtà in visione, catturando l’attimo fuggente e fissandolo sulla tela con precisione chirurgica. Un ponte tra la tradizione e l’innovazione, tra l’accademia e l’avanguardia.
Nella pittura devi dare l’idea della verità per mezzo del falso.
Edgar Degas
L’Assenzio, capolavoro di solitudine metropolitana è uno delle sue opere più note: due figure isolate, perse nei loro pensieri, il vuoto che li circonda denso come il fumo dell’alcol. La Classe di danza, palcoscenico di un dramma silenzioso: giovani corpi affaticati, sguardi persi nel vuoto, l’ombra del maestro che incombe come un destino. La famiglia Bellelli, un ritratto di gruppo che svela le tensioni e i conflitti celati dietro la facciata borghese, anticipando la pittura psicologica del Novecento. La tinozza, dove il corpo femminile, colto in un momento di intimità, si fa materia viva, palpitante, aprendo la strada alle ricerche espressioniste sulla corporeità.
Degas era un artista che non si limitava a descrivere la realtà, ma la interpretava, la scomponeva e la ricomponeva secondo una logica propria. La sua pittura, fatta di linee spezzate, di prospettive inusuali, di tagli improvvisi, era un’indagine sulla struttura stessa della visione, sulla relazione tra l’occhio e il mondo. Influenzato dalla fotografia e dalle stampe giapponesi, Degas sperimentava con audacia, aprendo nuovi orizzonti alla rappresentazione dello spazio e del movimento. L’uso sapiente della luce e del colore creava atmosfere uniche, cariche di tensione e di mistero.
E poi le sculture, piccole ballerine di cera e bronzo, fragili eppure eterne. Degas le modellava con le dita, come a voler catturare l’anima stessa del movimento, l’istante che fugge e si fa materia. Opere che testimoniano la sua incessante ricerca di una sintesi tra le arti, tra la pittura e la scultura.
Un’arte che non si accontentava di rappresentare, ma voleva comprendere, svelare, mettere a nudo, che interrogava, costringendo a guardare oltre la superficie delle cose.
La sua tavolozza, in un gioco di colori vibranti e contrasti audaci, crea un’atmosfera dinamica e pulsante, un riflesso della Parigi della Belle Époque.
La composizione, spesso decentrata e asimmetrica, sfida le convenzioni accademiche, introducendo un senso di casualità e immediatezza che anticipa le avanguardie del XX secolo. La sua maestria nel disegno, evidente nei suoi pastelli e studi preparatori, si traduce in una resa impeccabile della forma e del movimento. La bellezza nascosta nella banalità del quotidiano, nella pittura di Degas celebra l’umanità nella sua interezza, con le sue fragilità e contraddizioni.
immagine di apertura: Edgar Degas, La famiglia Bellelli, 1858-1867