Le Idi di Marzo

Il 15 marzo del 44 a.C. muore Giulio Cesare: il racconto del suo assassinio è stato rivisitato nella storia dell’arte nel periodo neoclassico, nelle opere di Vincenzo Camuccini e Jean-León Gérôme.

Le “Idi di marzo”. Un’espressione che risuona attraverso i secoli. Nella concezione temporale degli antichi romani, le Idi rappresentavano il punto centrale del mese, il giorno di piena luna o quello immediatamente successivo.

Nel 44 a.c., il sole di marzo illuminava pigramente la Curia di Pompeo, dove il Senato romano si riuniva in un’atmosfera di quiete tesa. Tra i senatori, Giulio Cesare, il condottiero vittorioso e dittatore perpetuo, sedeva impassibile.

Bruto e Cassio, si scambiavano sguardi carichi di determinazione. Il loro piano era semplice ma audace: assassinare Cesare durante la seduta e restaurare la Repubblica. Mentre Cesare ascoltava distrattamente le orazioni, un senatore si avvicinò a lui con una pergamena. Era un falso messaggio, un pretesto per avvicinarsi e colpire. Decio Bruto, uno dei congiurati, trattenne Cesare per un attimo, dando il tempo agli altri di sferrare il colpo mortale.

Sulla destra dell’opera il caos, la paura, l’incertezza, le figure vengono dipinte ritratte, ignare della congiura ma soprattutto sembrano dichiararsi innocenti.

Ventitré pugnalate trafissero il corpo di Cesare. Cadde a terra. Il Senato piombò nel caos. I congiurati, urlando la libertà ritrovata, fuggirono dal tempio, mentre il corpo di Cesare giaceva esanime.

Il 15 Marzo del 44 a.C muore Giulio Cesare, pronunciando queste parole: “Tu quoque, Brute, fili mi” (Anche tu, Bruto, figlio mio).

La storia di questo giorno è arrivata a noi grazie al racconto di due importanti storici e biografi: Svetonio, autore del De vita Caesarum, e lo storico greco Plutarco, che ha scritto le Vite parallele.

Vincenzo Camuccini (Roma, 1771- 1844), pittore prediletto dai Papi e dai potenti, artista neoclassico che aveva dato vita alle glorie e alle tragedie della Roma antica, interpreta i fatti attraverso un dipinto di colossali dimensioni, conservato oggi al Museo di Capodimonte di Napoli: La morte di Giulio Cesare.

La luce fioca del tramonto, filtra dalle finestre del Senato illuminando la scena attraverso una potente drammaticità, quasi teatrale. Le ombre si allungano sul pavimento creando un gioco di chiaroscuri che accentuano la tensione del momento. Le toghe bianche dei senatori, le vesti rosse, le spade ritmiche, le figure che si muovono cadenzate sull’intera tela, argomentano perfettamente il racconto. La scala emotiva viene ricreata dai corpi e dalle braccia delle figure. Le pose plastiche e statuarie dei personaggi conferiscono solennità al momento.

Sulla destra dell’opera il caos, la paura, l’incertezza, le figure vengono dipinte ritratte, ignare della congiura ma soprattutto sembrano dichiararsi innocenti. Sulla sinistra, nel gruppo centrale, Cesare appare fiero e forte, pronto a soccombere ma con onore. È circondato, a un passo dalla morte, eppure non è scomposto, al contrario si mostra elegante, maestoso, mantenendo sul capo la sua corona d’alloro.

Jean-Léon Gérôme, La morte di Cesare, 1867

Qualche anno dopo, sempre un pittore neoclassico, Jean-León Gérôme (Vesoul, 1824 - Parigi, 1904) racconta il cesaricidio nel dipinto La morte di Cesare.

La scena si svolge sempre all’interno del Senato romano. La statua di Pompeo, sul lato sinistro in ombra, simboleggia la decadenza della Repubblica. Cesare, coperto dalla toga bianca, giace ai piedi della Curia. La sua figura, distesa e inerte, quasi nascosta, crea un forte contrasto con la concitazione dei senatori in circolo al centro della scena. Non è più lui il soggetto ma i suoi nemici, i traditori.

La composizione è perfettamente studiata, le architetture e l’uso sapiente della luce e dell’ombra aggiungono ulteriore drammaticità alla scena. Catastrofe, tragedia, suspense.

Il dipinto è stato realizzato in un periodo di grande fervore politico in Francia, poco dopo l’assassinio di Napoleone III. È possibile che Gérôme abbia voluto creare un parallelismo tra i due eventi. Alcuni critici hanno visto nel dipinto una condanna del tirannicidio, mentre altri lo hanno interpretato come un omaggio alla libertà e alla democrazia.

Scriveva Plutarco in Vite parallele: “Come i pittori colgono la somiglianza di un soggetto nel volto e nell’espressione degli occhi, poiché li si manifesta il suo carattere, e si preoccupano meno delle altre parti del corpo; così anche a me deve essere concesso di addentrarmi maggiormente in quei fatti o in quegli aspetti di ognuno, ove si rivela il suo animo, e attraverso di essi rappresentarne la vita, lasciando ad altri di raccontarne le grandi lotte.”

Le idi di Marzo sono arrivate.

Immagine di apertura: Vincenzo Camuccini,  La morte di Giulio Cesare, 1806 ca.

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