Leonardo Mosso, la costruzione di un’utopia latente

Scomparso a fine dell'anno scorso, lo ricordiamo con le sue opere e il suo pensiero “digitale nello sguardo, analogico nel fare”.

Sono nella camera della mia infanzia quando leggo della morte di Leonardo Mosso. Intorno a me oggetti di cui non ricordo bene le storie, mobili austeri e quaderni di scuola. Ne prendo uno un po’ a caso, è piccolo e a quadretti, convinta di trovarci qualcosa anche se non so bene cosa.

Grandi forme colorate interrompono pagine intere di aste, sedioline, numeri e rettangoli. I tratti si fanno sempre più incerti e imprecisi via via che le figure si allontanano dall’esempio scritto da mano adulta.
L’attenzione timorosa del seguire le linee è commovente ma è il divertimento serissimo del costruire le forme che mi fa a capire perché Leonardo Mosso mi ha riportata ai miei esercizi di prescrittura, e cosa deve avermi colpito dei suoi alfabeti quando li ho visti per la prima volta.

Leonardo Mosso, Kunstverein, Karlsruhe. Immagine originariamente pubblicata in Domus 760

Gli alfabeti sono stati per me una lente preziosa per scoprire una fiducia nell’algoritmo, sempre alleata alla costruzione dei luoghi dell’utopia, che oggi vedo se non perduta, sbiadita, specie in tempi che hanno conosciuto l’invasività e la pervasività degli algoritmi in rete. È diventata quindi per me uno stimolo a indagare quello che è stato per Mosso un esercizio quotidiano ininterrotto dal 1969, e che oggi possiamo provare a leggere come l’estensione giocosa della sua ricerca progettuale e architettonica.

Tutte le sere dopo il lavoro, e pare anche durante le vacanze, Leonardo Mosso si è dedicato a inventare grammatiche e dare loro la forma di geometrie inedite che potessero corrispondere alle lettere di un alfabeto. Ha costruito tantissimi alfabeti e li ha declinati in forma di ideogrammi, strutture scritture e alfabeti a modulazione quadrata costruiti con un numero limitato di grafemi.

La sua volontà, in perfetta sintonia con la cultura semiotica di fine anni ’60, era quella di tornare alle origini della comunicazione, a prima della parola, al segno. E il modo di procedere nel farlo attinge al pensiero strutturalista, dal quale eredita una fede assoluta nella struttura intesa come generatrice di un sistema di trasformazione.

Mosso trova nell’algoritmo la possibilità di configurare lo spazio in infinite forme, e inventare sistemi modulari e replicabili che diventano i motori utopistici di un processo di costruzione virtualmente infinita.
La stessa fiducia si propaga dallo spazio vitale del foglio quadrato a quello delle sue strutture reticolari a giunti: studi di strutture architettoniche in legno, alluminio e acciaio, con cui sperimentare le infinite possibilità di connessioni all’interno di una struttura portante, e la potenziale ripetibilità in sistemi di strutture.

Leonardo Mosso, Nuvola Rossa. Immagine originariamente pubblicata in Domus 605

Le strutture però non sono delle anticipazioni di forme architettoniche, ma strutture di possibilità: “sistemi di generazione di trasformazione e di possibilità, da cui possono derivare infiniti messaggi o scelte anche formali”, così Mosso le presenta.

Leggere invadono lo spazio, lo trasformano, lo rendono trasparente e lo configurano in maniera imprevedibile. Mi ricordano la letteratura combinatoria di Queneau Perec e Calvino, hanno la stessa fedeltà nel seguire le regole che ci si è dati, e lo stesso effetto travolgente nel maneggiare elementi semplici. La regolarità dell’imprevedibilità la ritrovo nella Chiesa del Redentore a Torino che Mosso ha progettato alla fine degli anni ’50. Qui le geometrie modulari galleggiano su una ritmica sottostante, il gioco di rimandi tra pattern pulsa e diventa imponente, si fa propulsivo e catartico.

Sprofondata al centro dell’unica navata, nel calore del paramento in mattoni che invita al raccoglimento, ho ritrovato nel gioco dei contrafforti gotici la stessa grammatica di segni, la stessa sintassi che nella dimensione sacrale si traduce in un forte desiderio di ascensione.
Quello di Mosso è un brutalismo spirituale, e le forme sembrano propagarsi in maniera tanto spontanea quanto rigorosa, come se le simmetrie fossero generate da un caleidoscopio.

L’aspetto enigmistico e complice della richiesta di scoprire le regole del gioco nella costruzione di strutture accompagna l’intera produzione di Leonardo Mosso ed emerge come la radice ultima del suo pensiero e della sua pratica: digitale nello sguardo, analogico nel fare, aperto nella lettura che se ne può dare, e utopico nelle possibilità di sviluppo. Come un grido assoluto, le sue opere di levano come una preghiera di amore supremo verso la struttura, e come la scrittura costante di un’utopia latente.

Mariacarla Molè si è laureata in filosofia del linguaggio e specializzata in semiotica. Diplomata a Campo corso per curatori in Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, ha lavorato all’editing di testi curatoriali, e alla traduzione di testi di catalogo. Collabora con Flashart, Camera Austria e Il Manifesto, per recensioni di mostre e saggistica d'arte contemporanea.

Immagine di apertura: Leonardo Mosso, Architektur, 1972

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