Venezia: la danza dell’autoritratto a Punta della Dogana

Artisti allo specchio, prima dei selfie. La Pinault Collection presenta una mappatura del vasto territorio dell’autorappresentazione, tra identità e conflitti.

Nessuna opera meglio del video Live Through That (Atelier Brancusi)dell’artista francese Lili Reynaud-Dewar sintetizza l’ampio tema della nuova mostra “Dancing With Myself”, curata da Martin Béthenod e Florian Ebner e nata dalla collaborazione con il Museum Folkwang di Essen. Nel video, la giovane artista rappresenta il suo corpo come fosse una scultura, all’interno dell’Atelier Brancusi di Parigi. C’è tutto: la riflessione del ruolo dell’artista, la pittura che diventa body painting, l’appropriazione di uno spazio espositivo e il confronto con la storia dell’arte come specchio. Oltre alla consapevolezza di fare parte di una tradizione visiva e culturale che apparenta il fare di tutti gli autori, che i visitatori potranno ammirare negli ampi spazi di Punta della Dogana. 

Il genere dell’autoritratto e lo spazio che questo occupa nella vita di un’artista è da sempre centrale nella produzione di ogni autore che si pone come obiettivo l’indagine dell’identità e l’interrogativo attorno alle modalità per esprimerla attraverso immagini, forme e gesti. In questo senso, “Dancing With Myself” ripercorre in sale e angoli ben suddivisi fra di loro, le manifestazioni individuali di grandi autori che hanno affrontato tale percorso. È una scelta curatoriale molto netta; quella di non procedere per confronti e senza individuare sottotematiche tramite accostamenti fra autori, quanto invece una progressione di biografie che presenta ogni artista “allo specchio” con i suoi riflessi e trasfigurazioni. 

L’attacco della mostra (quasi invisibile per il visitatore distratto) è anche il momento più emozionante e intenso dell’intero percorso, iniziando con la celebre opera di Felix Gonzalez-Torres, Untitled (Blood)che nel 1992 mise in scena la transustanziazione laica del proprio corpo afflitto dall’AIDS che portò l’artista cubano alla morte nel 1996. Sfiorando la pioggia di perline rosse di plastica che formano il grande sipario, “Dancing With Myself” apre invece a una distesa di opere dalla qualità più puramente retinica, che vedono alternarsi tutti i diversi registri espressivi e varie tecniche che trovano nella fotografia il medium preferenziale per la scoperta di se stessi. Se immaginassimo questa mostra come un albero genealogico, sui rami vedremmo appesi i ritratti famigliari di più di un secolo di cultura visiva, troveremmo alle radici autori straordinari come Lucy Renée Mathilde Schwob, che scelse lo pseudonimo Claude Cahun per diventare una delle artiste più eccentriche e pionieristiche nel periodo tra le due guerre mondiali che più fortemente interrogarono la propria identità, anticipando di decenni la fluidità del genere e il superamento degli stereotipi sessuali. Dalla Cahun la filiazione è chiarissima in altri maestri come lo svizzero Urs Lüthie superstar dell’arte come Cindy Sherman che rese ben evidente il tema dell’appropriazione dell’identità nelle sue opere degli anni Settanta, che già palesavano il sovrapporsi di strati d’immaginari (cinematografici, sociali, estetici) su ogni individuo della società post-consumistica.  

Vista della mostra a Punta della Dogana, 2018. © Palazzo Grassi. Photo Matteo De Fina
Vista della mostra a Punta della Dogana, 2018. © Palazzo Grassi. Photo Matteo De Fina

Se questo album di famiglia, che prosegue idealmente con Nan Goldin, Lee Friedlander e in autrici più giovani come LaToya Ruby Frazier, vede nei tratti somatici il racconto del volto e l’affratellamento a gruppi sociali ed etnici, si apre poi un altro tipo di filone ugualmente incisivo che innerva tutta la storia dell’arte a partire dalle esperienze del concettuale e delle arti performative: il corpo come strumento di misurazione e come medium. Da Bruce Nauman a John Coplans, da Arnulf Rainer agli italiani Boetti e Paoli: la radicalità della sperimentazione degli anni Sessanta richiese un coinvolgimento diretto, una modalità di ritrarsi non narcisista, per descrivere il raggio d’azione dell’artista come testimone di un momento preciso e di una ritrovata centralità, non dissimile dall’Uomo Vitruvianodi Leonardo Da Vinci. 

Lavori come quello di Maurizio Cattelan Noi(2010), aprono poi al tema del doppio, così come le moltissime opere esposte del duo Gilbert & George spingono la riflessione del ritratto nel rapporto di coppia e nell’identità che si confonde con l’altro. Damien Hirst, che ha investito precedentemente gli spazi della Collezione Pinault con il suo titanico “Treasure of the Wreck of the Unbelievablecompare qui nei panni dell’enfant terrible della Youg British Art che sfidava il terrore della morte in una sorta di protoselfie macabro With Dead Head (1991) e in quelli di una divinità imbolsita rappresentata in uno dei tanti reperti archeologici “fake” dei famosi relitti della sua grande impresa, Bust of the Collector (2016).

Molti, forse persino troppi gli spunti offerti da “Dancing With Myself”; varrebbe perciò la pena studiare attentamente le varie biografie degli artisti, ottimamente documentate nel catalogo che accompagna la mostra, per meglio avvicinarsi a ciascun lavoro e al suo portato storico: poiché è proprio nel tempo, nel suo sedimentarsi che maggiormente si esprime e si comprende l’identità di un volto e del suo racconto, così come Roni Horn ha magnificamente palesato nel suo A.K.A.(2008-2009), uno dei veri capolavori in mostra.

Titolo mostra:
Dancing With Myself
Date di apertura:
8 aprile – 16 dicembre 2018
Sede:
Palazzo Grassi – Punta della Dogana, Venezia
Curatori:
Martin Bethenod, Florian Ebner

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