L’impotenza che si prova di fronte alla brutalità disumana, è difficile da narrare: sia attraverso il racconto verbale sia attraverso la documentazione. Questa ineffabile percezione è ciò che probabilmente ha spinto e costretto Richard Mosse a realizzare The Enclave, progetto che rappresenta il padiglione irlandese a questa 55. Biennale di Venezia. Richard Mosse, classe 1980, ha trascorso il 2012 nel Congo orientale assieme al videomaker Trevor Tweeten e al compositore Ben Frost.
The Enclave
Il docufilm di Richard Mosse al Padiglione irlandese della Biennale di Venezia sfrutta le possibilità del genere per mettere in scena, da artista, l'orrore.
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- Martina Angelotti
- 26 luglio 2013
- Venezia
Pur essendosi spacciati per giornalisti, con la loro incursione nelle zone presidiate da gruppi armati ribelli, hanno avuto un’attitudine e una selettività nel catturare gli scenari reali che si separa volutamente dalla narrazione giornalistica, finalizzata a restituire la veridicità di un fatto. Sono invece ricorsi a espedienti linguistici opposti, che esplodono in una fusione di immagini fotografiche, suoni e film.
The Enclave si compone di sei schermi, inseriti all’interno della stanza in maniera non casuale: in posizioni sghembe, decentrate, asimmetriche, compongono un paesaggio performativo, esasperato dal machismo delle presenze umane (tra cui quelle di guerriglieri bambini che imbracciano armi), e dal cinismo dell’osservatore di fronte alla telecamera. Quello che attira di questa sequenza d’immagini in movimento è la costante presenza di una palette di colori tarata sul rosa acceso, che sembra sostituire tutto il verde circostante, il camouflage dei soldati, gli alberi, i cespugli e la savana sullo sfondo. Una tinta irreale, generata dalla tecnica di ripresa che registra l’invisibile spettro della luce a infrarossi e stride di fronte al cupo presagio suggerito dalle ambientazioni. La stessa tecnica, peraltro, utilizzata fino a dieci anni fa sul fronte di guerra, per stanare il soldato mimetizzato nel paesaggio.
Come si fa a trasformare in bellezza la tragedia umana? È la domanda che sottende alla visione di suggestioni compulsive, che si passano l’azione di schermo in schermo, si lasciano la mano per riprendersela nella scena successiva. Dal mare oceanico si passa alla terrestre jungla, gremita di folle sul ciglio di sentieri sgretolati, che guardano in macchina con sguardi spettrali; dagli accampamenti dei profughi alla singola casetta in legno, sradicata come un trofeo da uomini scalzi, con la stessa irruenza di un animale selvaggio, che probabilmente è già lì, a pochi passi da loro. Laddove non si guarda, si ascolta per vedere. Accanto alle immagini filmiche, esplodono quelle sonore. Oltre alle apparenti registrazioni in presa diretta, un suono preponderante è l’eco sorda che segue agli spari dei guerriglieri e che, a seconda degli utilizzi, attenua o enfatizza il grado di finzione dell’opera.
Quello a cui assistiamo è l’immersione in una meta-realtà, che si finge di essere documentazione, ma porta avanti con somma precisione la possibilità di restituire l’immediatezza di un incubo visibile, attraverso l’artisticità di un linguaggio. Questa sospensione, determinata dalla componente fiction, è resa in maniera evidente dagli accadimenti che poco a poco si succedono inavvertitamente nelle riprese. I personaggi sembrano emergere dal set di un film di guerra: drammatici e ironici, sono loro stessi protagonisti di una storia raccontata, ma che al contempo accade per davvero.
La raffinata messa in scena di certe gestualità di guerriglieri alle prese con riti propiziatori, lo psicodramma improvvisato nel fingersi morto in un terreno di violenza inaudita e reale, è ciò che paradossalmente trasforma a tratti questo film-ambiente, in un iperrealismo sconcertante, quasi parodistico. La macchina da presa di Richard Mosse diventa l’obiettivo attorno al quale ruotano le azioni sulla scena, una sorta di momento di pausa dal reale che, paradossalmente, conferisce legittimazione a tutti i protagonisti nel potersi auto contemplare e raccontare.