The Enclave si compone di sei schermi, inseriti all’interno della stanza in maniera non casuale: in posizioni sghembe, decentrate, asimmetriche, compongono un paesaggio performativo, esasperato dal machismo delle presenze umane (tra cui quelle di guerriglieri bambini che imbracciano armi), e dal cinismo dell’osservatore di fronte alla telecamera.
Quello che attira di questa sequenza d’immagini in movimento è la costante presenza di una palette di colori tarata sul rosa acceso, che sembra sostituire tutto il verde circostante, il camouflage dei soldati, gli alberi, i cespugli e la savana sullo sfondo.
Una tinta irreale, generata dalla tecnica di ripresa che registra l’invisibile spettro della luce a infrarossi e stride di fronte al cupo presagio suggerito dalle ambientazioni. La stessa tecnica, peraltro, utilizzata fino a dieci anni fa sul fronte di guerra, per stanare il soldato mimetizzato nel paesaggio.
Come si fa a trasformare in bellezza la tragedia umana? È la domanda che sottende alla visione di suggestioni compulsive, che si passano l’azione di schermo in schermo, si lasciano la mano per riprendersela nella scena successiva.
Dal mare oceanico si passa alla terrestre jungla, gremita di folle sul ciglio di sentieri sgretolati, che guardano in macchina con sguardi spettrali; dagli accampamenti dei profughi alla singola casetta in legno, sradicata come un trofeo da uomini scalzi, con la stessa irruenza di un animale selvaggio, che probabilmente è già lì, a pochi passi da loro.
Laddove non si guarda, si ascolta per vedere. Accanto alle immagini filmiche, esplodono quelle sonore. Oltre alle apparenti registrazioni in presa diretta, un suono preponderante è l’eco sorda che segue agli spari dei guerriglieri e che, a seconda degli utilizzi, attenua o enfatizza il grado di finzione dell’opera.
