È difficile pensare che ci sia, nella storia dell’architettura contemporanea, una figura di intellettuale altrettanto controversa come quella di Rem Koolhaas: da un lato, una guida per le folle – architettoniche – cui offre, nei suoi testi apodittici, un’analisi sul presente tanto acuta quanto utilmente spiazzante (Marco Biraghi, in “Rem Koolhaas. L’architettura al di là del bene e del male”, lo avvicina a Nietzsche); dall’altro, una voce contestata da chi non gli perdona le boutades provocatorie e corrosive, in rottura con ogni eredità culturale (che non gli hanno però impedito di ricevere il Premio Pritzker nel 2000). Architetto e narratore indefesso delle complessità del moderno, sua caratteristica distintiva è il ricco substrato teorico che alimenta il suo lavoro con lo studio Oma (Office for Metropolitan Architecture), aperto nel 1975 a Londra, poi approdato nel 1978 a Rotterdam e da lì in Asia, Australia e Stati Uniti e, dal 1999, con il suo think-tank Amo. È il substrato dei suoi libri “best seller” e di tutta la sua opera, dalla tesi di laurea del 1972 (quando vaticinava di muri paralleli infiniti per racchiudere spazi di vita riconquistati ad una Londra catatonica) fino alle ultime esplorazioni della campagna come spazio salvifico per un futuro post-umano.
L’architettura di Rem Koolhaas in 8 progetti fondamentali
Dagli Stati Uniti all’Italia, dall’Olanda alla Cina, esploriamo l’opera e il pensiero della figura più multiforme nel panorama architettonico attuale, Pritzker Prize 2000, fondatore di Oma e irriducibile sovvertitore dei paradigmi culturali del mondo moderno.
Da Domus 811, gennaio 1999
Da Domus 811, gennaio 1999
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Courtesy Bordeaux Metropole
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- Chiara Testoni
- 30 aprile 2025
Iper-densità e congestione metropolitana (“Delirious New York”, 1978), trionfo della macro-scala architettonica (“Bigness, or the Problem of Large”, 1994), “città generica” prodotta dell’omologante globalizzazione (“The Generic City”, 1995) e “spazi spazzatura” scaturiti dalla proliferazione incontrollata del mercato di massa (“Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano”, 2006) per lui non sono indizi di un Armageddon dell’urbanesimo. Dimostrano piuttosto che quell’ansia modernista di un controllo programmatico-funzionale non può modificare la genetica della città contemporanea: un “mostro” naturalmente mutante e libero solo se sbrigliato dalla “camicia di forza” del passato e dell’identità, con ragioni proprie che la ragione (dell’architetto) non conosce. In quasi cinquant’anni di lavoro, emerge una linea di progetto estranea ad un’etichetta (anche a quella del “decostruttivismo” e del “postmoderno” che spesso gli sono state attribuite), interessata a recepire senza moralismi le (dis) funzioni intellettualmente nutrienti della città contemporanea, più che a predeterminarle a tavolino, e indifferente a qualsiasi ambizione formale, tanto da preferire talvolta ad un’estetica posticcia una sgarbatezza deflagrante: dalle opere che “se ne fregano” del contesto (“fuck the contest” è il suo laconico anatema: Seattle Central Library, Casa da Música); alle provocazioni in diverse “taglie-scale” (“S, M, L, XL” ), macroscopiche (De Rotterdam, Shenzhen Stock Exchange, Taipei Performing Arts Center) o microscopiche (Maison à Bordeaux); agli interventi che ridefiniscono il concetto di dialogo tra passato e presente (Fondazione Prada) e di spazio urbano (Simone Veil Bridge). Traspare la convinzione che, se “Dio (i.e., l’architettura) è morto”, forse anche l’uomo urbano con le sue nevrosi e fragilità non sta tanto bene: ma va bene così, se questo è il modo per rinnovarsi e sfuggire alla pietosa bugia di un possibile riparo dal caos.
La residenza privata di tre piani si situa su una collina che domina la città. Il piano inferiore, scavato nel terreno, ospita gli spazi privati della famiglia; il piano terra, a livello del giardino, la zona giorno racchiusa da un involucro vetrato; il piano superiore, una zona dedicata ai bambini e una ai genitori. Cuore dell’abitazione è una piattaforma elevatrice di 3x3,5 m progettata per il cliente, costretto in sedia a rotelle dopo un incidente: una “stanza” che si muove liberamente tra i piani e che, integrandosi alternativamente nella zona giorno e nella cucina, o trasformandosi in ufficio, modifica continuamente il layout degli ambienti.
Koolhaas propone uno spazio civico per la circolazione della conoscenza in tutti i media senza distinzione e un sistema di archiviazione pensato per una collezione libraria in continua crescita: la “Spirale dei Libri”, una rampa di scaffalature continua in cui coesistono senza soluzione di continuità i vari “formati” (digitali e cartacei). I vari programmi della biblioteca sono organizzati intuitivamente su cinque piattaforme e quattro piani fluidi “intermedi” che determinano la caratteristica forma sfaccettata dell'edificio.
L’edificio si staglia come un meteorite in cemento bianco in un ordinato quartiere della prima periferia di Porto, creando una forte tensione con il tessuto urbano circostante. Un vuoto centrale fa da epicentro della composizione: il Grand Auditorium sopraelevato da 1.300 posti (a forma di “scatola da scarpe”, spesso sterilmente vituperata dagli architetti, come sostiene Koolhaas) con facciate in vetro ondulato alle due estremità che introiettano la città come uno sfondo scenografico. L’opera comprende anche uno spazio per spettacoli più piccolo e flessibile, dieci sale prove, studi di registrazione, un’area didattica, un ristorante, una terrazza, bar, una sala VIP, aree amministrative e un parcheggio sotterraneo.
Il complesso De Rotterdam, situato accanto al Ponte Erasmo nell’ambito del programma di rigenerazione del quartiere portuale di Wilhelminapier, è concepito come una città verticale: tre torri interconnesse a uso misto che ospitano uffici, appartamenti, un hotel, spazi per conferenze, negozi, ristoranti e caffè. Densità urbana e diversità, sia nel programma sia nella forma, sono i principi fondanti del progetto: le torri sono disposte secondo un agglomerato irregolare che rifiuta di risolversi in una forma unica e che muta a seconda dei molteplici usi interni, intrecciando un dialogo sempre diverso con il contesto.
Per la Borsa di Shenzen, Koolhaas sovverte la tradizionale tipologia edilizia del grattacielo ancorato su un basamento, progettando un blocco di tre piani a sbalzo incastrato nel corpo della torre a un’altezza di 36 metri da terra. Il volume sospeso, che ospita la sala quotazioni e gli uffici della Borsa, evoca il potere dominante a livello globale del mercato azionario. La “pelle” traslucida in vetro che avvolge la griglia della torre e il podio rialzato cambia continuamente con la luce, alludendo agli umori mutevoli della finanza.
Il progetto rinnova i sette edifici di una vecchia distilleria di gin d’inizio Novecento (magazzini, silos di fermentazione e laboratori), aggiungendo tre nuovi corpi di fabbrica distribuiti attorno ad un cortile: uno spazio per mostre temporanee, un auditorium multimediale e uno spazio espositivo permanente di dieci piani per la collezione e le attività della Fondazione. L’intervento non è concepito da Koolhaas come un progetto di conservazione o di nuova realizzazione ma come un’ibridazione di frammenti eterogenei che, attraverso un’interazione permanente tra passato e contemporaneità, si coagulano a formare un’immagine composita.
L’imponente Taipei Performing Arts Center da 59.000 mq, situato nel vivace quartiere di Shilin, è la nuova sede delle numerose compagnie artistiche di Taiwan, e abbraccia un’ampia varietà di attività (dalla danza, alla lirica, al teatro). L’opera comprende tre teatri collegati a un cubo centrale, e dà vita ad uno spazio continuamente mutevole e adattabile per dinamiche sperimentali: la Globe Playhouse, un volume sferico da 800 posti che sembra un pianeta incastrato nel corpo dell’edificio, il Grand Theater da 1500 di forma leggermente asimmetrica, e il Multiform Theater (“Blue Box”) da 800 posti. Gli ultimi due sono tra loro collegabili in modo da comporre un “Super Theater” da 2.300 posti pensato per mettere in scena le performances più innovative.
Il Ponte Simone Veil rifiuta la ricorrente concezione di ponti come opere ingegneristiche sofisticate ed esteticamente accattivanti, alla ricerca di una vocazione alternativa per questa tipologia. Il ponte sulla Garonna è costituito da una piattaforma lunga 549 metri e larga 44, e si propone al contempo come infrastruttura urbana e spazio pubblico lineare. Indifferente ad una ricerca formale, l’opera convoglia diversi flussi di transito (ciclabile, pedonale e su ruota, pubblico e privato) in corsie riservate, oltre a creare uno spazio “neutro” non programmato, adattabile e utilizzabile per scopi culturali, ricreativi o commerciali.