Che si tratti di libri o di edifici, sono ormai 50 anni che Rem Koolhaas, ora con il suo studio Oma o la sua branca più teorica Amo, tiene a collocare le sue ricerche sul fronte più avanzato della produzione architettonica contemporanea. Dal postmodernismo teorizzato in Delirious New York agli edifici-diagramma come la Kunsthal di Rotterdam e la biblioteca di Seattle, dalle provocazioni scalari di S,M,L,XL alla ridefinizione del concetto di patrimonio industriale rappresentata da Fondazione Prada a Milano.
Verso la metà degli anni 2000 è il turno della Casa da Musica a Porto, che con la sua forma di monolite “caduto sulla terra”, presso una rotonda dai tratti classici, avrebbe poi ispirato un’intera generazione di progetti di edifici pubblici negli anni a venire. Domus la pubblicava nel maggio del 2005, sul numero 881.
L’architettura che cadde sulla terra Shumon Basar
Senza fine
Tre ore se ne sono già andate, ed Ellen non ha ancora esaurito la lista delle meraviglie e dei segreti da mostrarci – squilla il suo cellulare, è Rem Koolhaas: “Cosa? Stai ancora facendo la visita guidata?”. Sono passati quattro anni da quando si è aggiudicata la commissione della Casa da Música per la seconda città del Portogallo, Porto, e l’architetto e socio di Oma Ellen van Loon gongola ancora nell’aggirarsi con noi nel piccolo feudo che lei stessa ha contribuito a fondare. Ellen termina il nostro epico e labirintico viaggio negli spettacolari meandri dell’edificio, dove fra pochi giorni i musicisti si prepareranno a salire sul palcoscenico e i direttori d’orchestra, grazie alle pareti divisorie in vetro, sperimenteranno cosa significa operare in condizioni ‘trasparenti’. Accenno al fatto che questa grande visibilità e questi spazi a libero scorrimento, un vero antipanopticon, negano ogni possibile microdinamica illecita all’interno degli uffici. “Ci sono un sacco di spazi nascosti in questo edificio, credimi”, risponde Ellen. Ed evidentemente sa quel che dice.
Una ‘scatola’ faux-naïf
La genesi della Casa da Música all’interno di quella fucina che è Oma, lo studio di architettura con base a Rotterdam, precede di anni la realizzazione dell’edificio. Essa risale, stando a numerosi aneddoti, al progetto della cosiddetta “Casa Y2K” – abitazione destinata a un cliente che pare non volesse aver a che fare con la famiglia pur vivendo sotto lo stesso tetto – struttura fondata su una solida massa oblunga nella quale venivano ricavati numerosi spazi vuoti e isolati. Al pari del temuto millennium crash, la Y2K non si è mai concretizzata – almeno fino a quando ad Oma non hanno iniziato a cercare idee per una sala concerti a Porto: secondo lo stesso Koolhaas, è stato proprio moltiplicando per cinque la scala dell’abitazione e sostituendo spazi domestici come le camere e il ripostiglio con sale per concerti, musica da camera e musica sperimentale, che si è ottenuto il Dna della Casa da Música. La favola alchemica è un tipico copione koolhaasiano: una casistica epistemologica che riporta un apparente fallimento coi semi di un nuovo, poderoso successo.
Forse il nucleo – tanto reale quanto simbolico – della Casa da Música di Oma è l’Auditorium Grande. Dopo un vorticoso giro di visite alle migliori sale del mondo, Koolhaas e il suo team hanno riconosciuto che “il parallelepipedo è lo spazio migliore per una sala da concerto”, un’affermazione che Renz van Luxemburg, l’ingegnere del suono, ha appoggiato con entusiasmo. Ma non lasciatevi ingannare da questa sorprendente adesione all’uso della classica “scatola da scarpe”. Perché se è vero che l’auditorium della Casa da Música è un’enorme scatola rivestita di compensato, tale da far godere qualche mediocre minimalista almeno quanto un film porno per cultori, questa scatola è zeppa di aperture, fori e interruzioni. Senza contare che le pareti alle estremità sembrano sparite.
Così, piuttosto che un auditorium modello bara sigillata, tagliato fuori da altre possibilità di utilizzo, dalla luce del giorno, dalla luce notturna e dalla città che la circonda, lo spazio principale della Casa da Música risulta un’entità realmente porosa e aperta allo scambio, che si schiude a innumerevoli possibilità, sia immediate sia remote. Frutto di una scelta radicale, quelle due pareti a prima vista assenti non sono infatti altro che massicce, solide lastre di vetro corrugato, che raggiungono un’altezza di ben cinque metri in un singolo pannello. La loro superficie ondulata rappresenta la soluzione escogitata dall’ingegnere del suono Renz van Luxemburg per poter usare il vetro come materiale acustico: le ondulazioni deflettono il suono in modi variegati quanto basta per migliorare sensibilmente il timbro duro e secco che il vetro è solito produrre. E, nonostante ovvie rifrazioni, la visibilità attraverso le pareti vetrate è decisamente elevata, tanto che gli alberi della Rotunda da Boavista si scorgono anche dall’altro capo della sala. Consentire alla luce del sole di entrare in una sala da concerto, poi, è un gesto semplice eppure trasgressivo. Svanisce così la sensazione di una notte perpetua a cui ci eravamo abituati: è come spalancare improvvisamente le tende dopo essere rimasti seduti al buio per secoli.
E la porosità non termina alle due estremità. Guardando alle lisce pareti di compensato, si osservano altri tagli nel vetro corrugato. Li indico a Ellen van Loon, che subito elenca la “sala della cibermusica, la sala dei Vip, e lo spazio in cui i genitori possono lasciare i bambini quando vengono ai concerti”. Ogni altra cosa nell’edificio sembra gravitare – in un modo o nell’altro – intorno a questo pregnante, muto e trasgressivo spazio-evento. Non contento del solo fatto di poter vedere l’esterno dall’interno, l’Auditorium Grande è anche un panopticon del divertimento a doppio senso di circolazione: uno spazio dal quale si può vedere tutto quel che ci circonda, e dentro al quale, dall’esterno, lo sguardo penetra con semplicità. Immagino i tradizionalisti deprecare un tale gioco visuale come un “inquinamento profano”!
Quel che Oma propone qui, al posto della singola immagine su canale unico dei giorni andati, è una visione simultanea, schermo contro schermo. Mi chiedo tuttavia se anche loro non stiano soccombendo pigramente al cliché secondo il quale i limiti della nostra attenzione si possono quantificare oggi in termini di secondi. Non avranno finito anch’essi per credere che, distratti e svogliati, non guardiamo veramente la TV ma facciamo zapping attraverso un numero esorbitante di canali? Non credo. E non vi è nulla di cinico nel desiderio di massimizzare le relazioni all’interno dell’edificio facendone, se volete, un coro di voci piuttosto che un unico, grasso solista che monopolizza la scena. Noi infatti ascoltiamo con gli occhi, assorbiamo immagini, anche quando ascoltiamo Mozart. È un concetto che Madonna sfrutta da decenni, e negarlo significa contraddire il modo in cui diamo un senso alla materia sonora.
Perciò, le pareti dell’Auditorium sono decorate con una riproduzione della grana del compensato ad elevato numero di pixel, ingrandita di cinquanta volte e minuziosamente applicata in lamine dorate di cinque centimetri di lato. L’unico personale sufficientemente qualificato per questo tipo di operazione sono gli specialisti in restauro, gente dotata, com’è ovvio, di un livello di pazienza inumano. Si tratta forse delle stesse vittime volontarie che hanno tessuto a mano la straordinaria tenda semioscurante firmata Petra Blaise? I suoi nodi hanno il diametro della testa di un bimbo, e sono intrecciati meticolosamente attorno a un tessuto di nylon a rete. Viene da pensare che chi ha prodotto queste lamine dorate e tessuto questa tenda abbia ricevuto dei file corrotti, dai quali è risultato uno schema decorativo in scala errata rispetto all’architettura a cui era destinato.
Un tocco toccante
Dal foyer dell’Auditorium, illuminato a giorno, ci spostiamo lungo le gallerie di transito, rivestite tutte di una combinazione di cemento bianco e pannelli di alluminio. Si tratta di una tavolozza insolitamente sobria per un edificio di Oma, che mi ricorda il loro recente progetto per l’ambasciata olandese a Berlino. Lì, a una muta base di alluminio per pavimento, pareti e soffitto fanno da contrappunto momenti di colore acido. Ma, alla Casa da Música, il contrasto tra i taciturni spazi di transito e le “stanze degli eventi” è decisamente più marcato.
Il Portogallo è famoso per il suo vino e la sua trippa. E per le maioliche. Nella sala dei Vip della Casa da Música, il rivestimento in mattonelle mostra scene di corte del Settecento dipinte a mano.
Nella sala del Rinascimento, adiacente all’Auditorium Grande, un effetto ottico alla M.C. Escher è creato per mezzo di piastrelle invetriate e in rilievo che avvolgono lo spazio come una costosa carta da regalo. E, sul tetto, oltre il ristorante, uno spezzone dell’edificio è scavato via, mettendo in mostra un rivestimento di piastrelle a scacchiera. Persino alle maniglie delle porte antincendio è applicata la medesima finitura. Nessuno avrebbe mai immaginato che Oma, un tempo famigerati per la loro infatuazione per materiali da costruzione standardizzati e di basso costo, avrebbero adottato su larga scala materiali appositamente commissionati e fatti a mano. Il tutto sconfina in un’isteria quasi-contestuale. Con una briciola di sentimento.
Imprevisto celeste
Mentre continuiamo a girare dentro, sotto, di fianco e sopra l’Auditorium Grande, scopro di non riuscire a visualizzare la pianta dell’edificio. In effetti, si tratta di una composizione che può essere stata concepita solo come oggetto tridimensionale, dato che non vi è, quasi, spazio che si ripeta, e che i livelli dei pavimenti procedono a zigzag da stanza a stanza. Una tale incontenibile inventiva dà le vertigini, e quanto più ci si sposta all’interno dell’edificio, tanto più squisita appare l’organizzazione. Né vi è nulla che appaia ostentato, ma tutto è convenientemente funzionale. Il lato nord della costruzione è densamente stratificato di spazi a uso tecnico, mentre il lato opposto risulta completamente vuoto. Qui, si rimane stupiti dallo svettante atrio d’ingresso, dove la struttura in cemento bianco è stata ottenuta con colate ad angoli obliqui del tutto inediti: l’effetto che ne scaturisce dà alla Casa una solidità intelligibile e una coerenza ultraterrena.
Durante la costruzione, si sono manifestati almeno tre spazi interstiziali, del tutto imprevisti anche durante gli stadi della modellazione. Tra questi, il più spettacolare si trova sopra l’Auditorium Grande, dove dei pavimenti bianchi digradanti portano a un enorme tetto retrattile. Si tratta dell’unica area la cui acustica non sia stata calcolata, e ciò le conferisce l’inimitabile qualità di creare un’eco simile a quella che immagino vi sia in paradiso.
Principianti contro Stradivari?
La tentazione di definire la Casa da Música uno ‘strumento’ è troppo grande per essere respinta. La ricerca di Oma entro nuovi campi di tipologia architettonica, condotta con una tenacia da segugio fin dagli anni Settanta, comincia finalmente a dare i suoi frutti. La Seattle Public Library fonde il monumentale col municipale sotto l’egida di un sublime universo rappresentato dall’atrio. L’ambasciata olandese fa scaturire ventiquattro livelli da undici piani, trasformando la tipologia del palazzo residenziale in qualcosa che va ben oltre il prevedibile. E, con la Casa da Música, Oma fa dono alla città di Porto di un nuovo riferimento nel campo delle istituzioni musicali – qualcosa nella scia di Stradivari e Steinway. Il problema è che se io tentassi di usare uno di questi venerati strumenti, ne uscirebbe solo un inascoltabile cigolio cacofonico: l’eufonia è generata tanto dallo strumento quanto dal musicista.
Ho presentato l’idea a Pedro Burmester, il celebre pianista reclutato fin dal concepimento del progetto per fungere da forza trainante della Casa da Música. “Com’è possibile afferrare l’edificio nel suo complesso?” - replica. “Qui, la sfida è vedere tutto quello che funziona al suo interno come connesso a qualcos’altro, così come lo è l’edificio. Ti trovi in un luogo e ne vedi un altro: questo dovrebbe essere il pensiero che guida il programma della Casa. Bisogna usare l’intero edificio come uno strumento”. Si tratta di una sfida complessa, che esige una direzione paragonabile a quella di un direttore d’orchestra che abbia una visione diretta e attiva dell’intero ensemble. Burmester lo esprime efficacemente quando afferma che “ogni angolo ha un’atmosfera diversa… è impossibile usare la Casa da Música in maniera normale”.
Una domanda in forma di labirinto
Finora, per me, la Casa da Música ha una profondità di duecentodieci minuti, e non ci vuole molta immaginazione per credere che possa offrire ancora ore e ore di complessità piranesiana. Se la mitica Arianna avesse provato a dipanare il suo filo per tracciare una via d’uscita dai labirinti di quest’edificio, presa dall’esasperazione avrebbe probabilmente rinunciato all’impresa. Perché questo non è un labirinto normale, ma ha la forma specifica di una monumentale domanda, lasciata cadere a Porto. Godard, credo, disse una volta che non sono le risposte a importare veramente, ma è saper formulare la giusta domanda. Le domande spalancano gli orizzonti del possibile, del pensabile e del raggiungibile. Segnano il confine di quella che consideriamo essere la nostra realtà. Non tutte le domande hanno bisogno di una risposta, ma sospetto che quella che la Casa da Música pone ai suoi responsabili, all’amministrazione locale e al pubblico debba trovare una risposta impegnata e diretta. Altrimenti tutto quel che rimane è una bianca e lucida lapide a un fallito rinnovamento culturale. In questo senso, Burmester aveva fissato la sua ultima ambizione nel conquistare il pubblico locale per mezzo della stimolante presenza dell’alieno visitatore di Oma. “Innanzitutto bisogna fare partecipe il vicinato. Il resto verrà da solo”.
Oggetto oggetto
Il giorno prima del mio arrivo, alcuni componenti dello studio olandese hanno noleggiato un elicottero per scattare delle immagini aeree dell’edificio. Dall’alto, si vede l’eterogenea urbanistica di Porto, che si spinge dal mare, attraverso la città vecchia, fino alla semidecrepitezza dell’area che circonda la Casa da Música. Un cimitero, abitazioni dozzinali, una pioggia di negozi ed edifici derelitti compongono una grana grossolana e imperfetta. Contro tutto questo, la Casa da Música emerge sia per la scala eccezionale sia per la sua elaborata ma disadorna guaina bianca. Una piazza di travertino rossastro rialzata ai margini come un tappeto sgualcito fornisce all’alieno un vibrante terreno di gioco. Guardare giù all’edificio dalla prospettiva degli dei fa spuntare un’altra domanda insidiosa: non è forse che Oma abbia costruito un acerbo, incompleto modello di studio? La bianca angolarità della struttura e le sue epiche e semplicissime fenditure la fanno sembrare proprio uno dei cento esperimenti di processo visibili nello studio di Oma, e, dall’alto, il vetro corrugato sembra la plastica ondulata così amata dai costruttori di modelli architettonici. Il travertino, infine, potrebbe essere una texture messa insieme con pezzi usciti dalla stampante e applicata col taglia-e-incolla.
Ancora più perplessi lascia il fatto che, dal piano strada, la Casa non colpisce poi in modo così brutale e sconveniente. Tutt’altro: al pari di David Bowie in L’Uomo Che Cadde Sulla Terra, la Casa è atterrata come un alieno ma si è inserita nel nuovo contesto con amabile naturalezza. Da qualunque angolo ci si avvicini si vede una delle sue facce mescolarsi con la prospettiva esistente: dalla Rotunda da Boavista, appare pittoresca; dal cimitero posteriore, riverente architettura funeraria; dalle abitazioni circostanti, domestica. Questo alieno, contrariamente a quanto faceva E.T. al termine della favola extraterrestre di Spielberg, non vuole tornare a casa, ma sembra aver trovato casa nell’atmosfera di declino dei suoi immediati dintorni. Non simulandoli, ma nel suo esserne l’esatto opposto.
Sublime libero da ironia
Lasciando la Casa da Música, sconcertato e stupito, la mia intuizione finale è che oltre lo status di esperimento tipologico, di sfida curatoriale e di shaker culturale, questo progetto sia un’affermazione dell’architettura come architettura. Non si tratta di Oma che sovrintende alla realizzazione tardiva di qualche cervellotica ricerca di cui si sono stufati. Non si tratta di Oma che costruisce un indice per la merce scadente del tardo modernismo. Non c’è amante geloso, né “al diavolo il contesto”, né pacatezza ironica o ¥¤$. Si tratta di Oma che insiste nell’inimitabile sé dell’architettura senza perdere il tratto irascibile del fare le cose sbagliate nel posto giusto. Mi verrebbe da dire che Koolhaas, van Loon e la loro équipe di architetti, designer, ingegneri e artigiani dal talento prodigioso stanno dando corpo a una nuova, contemporanea specie di sublime. Ma so che non lo ammetterebbero mai.
Prima della partenza, Ellen mi riassicura che la prossima volta che torno mi mostrerà il resto della Casa da Música. Così sarò sistemato.