C’era una volta nel cuore di Milano un tempio, un manifesto di cemento e acciaio dedicato alla nuova divinità del XX secolo, l'automobile. Un luogo dove l'architettura si faceva manifesto, la funzione diventava forma, l'utile si trasformava in bello. Correva il 1956 e mentre l'Italia si scrollava di dosso la polvere della guerra per tuffarsi nel miracolo economico nascevano Quattroruote e il Garage delle Nazioni. L’uno il mensile che avrebbe seguito l’evoluzione dell’auto, la sua parabola da oggetto simbolico a problematica urbanistica. L’altro una promessa del boom, dove non si parcheggiavano macchine ma desideri, non mezzi di trasporto ma apparati estetici, non beni ma simboli dell’ultima religione, la velocità.
Classe 1905, l'architetto Antonio Cassi Ramelli aveva capito tutto. La macchina stava diventando sempre meno un mezzo di trasporto e sempre più una dichiarazione d'intenti, capace di spostare la sua traiettoria d’uso in una prospettiva di senso. Dalla funzione alla forma, dalla forma al simbolo, dal simbolo all’immaginario. E così l’architetto milanese non aveva voluto progettare una semplice autorimessa per lamiere e pistoni, ruote e fari ma un'architettura vera e propria per accogliere, tutelare e celebrare i simboli del nuovo culto, le reliquie della meccanica, i paramenti della liturgia. Auto come Gesammeltweke, insomma, l’opera d’arte totale vagheggiata da tutto l’Ottocento, capace di spostare la costruzione dell’ordinario nel registro dell’immaginario.

Al Garage delle Nazioni tutto andava in questa direzione. “All'entrata vi accolgono in elegante tuta verde gli inservienti di sala”, recitava l'opuscolo pubblicitario, per rimarcare che là non c'erano “parcheggiatori” ma “inservienti di sala”, come in un teatro dell'opera, in un museo, in un palazzo del potere. Perché l'auto non era appunto un mezzo ma un’icona, un dispositivo culturale fatto quasi interamente a mano e per questo capace di costruire un canone, una mitologia, un’epica.
Allo stesso modo il Garage delle Nazioni, architettura funzionalista pura, diventava poesia, elegia, sinfonia nelle rampe si avvitavano nello spazio centrale con un movimento sinuoso, quasi sensuale. Una citazione esplicita, anche se in sedicesimo, del mitico Lingotto di Torino che l’altrettanto mitico Le Corbusier avrebbe definito “uno degli spettacoli più impressionanti che l'industria abbia mai offerto”. Aveva ragione questa volta Le Corbu, perché lì le automobili non si producevano ma si facevano venire alla luce.
In quella Milano ormai irreperibile, dove Alfa e Lancia non erano meno di Ferrari e Lamborghini e più di Aston Martin, Jaguar e Mercedes, non si poteva avere solo l’auto ma anche un posto per proteggerla e tutelarla, magari solo le due ore di un pranzo in doppiopetto Loro Piana e camicie Bardelli. Il Garage delle Nazioni era la risposta a questo desiderio di status, di rappresentanza, di classe. Un'architettura che odorava di esclusività, privilegio, appartenenza, riconoscimento chi “era arrivato” avendo fatto del progresso tecnologico la propria bandiera. Sempre con l’understatment, però.
Nella prospettiva di Domus, che allora era già grande, quelle rampe che si intersecavano nello spazio alla ricerca di un altrove, quei pilastri che sorreggevano la struttura con grazia perduta confermavano l'architettura italiana del Dopoguerra fra le poche capace di trasformare la funzione in bellezza. E un garage in una dichiarazione d’amore per l’estetica e la politica. Così nel cuore di Milano una certa idea di modernità prendeva forma, rinnovando il presagio di Marinetti nato poco distante: l’automobile è più bella della Nike di Samotracia.
Non una semplice autorimessa per lamiere e pistoni, ruote e fari ma un'architettura vera e propria per accogliere, tutelare e celebrare i simboli del nuovo culto, le reliquie della meccanica, i paramenti della liturgia.
Ma i tempi cambiano e le città con loro. E cosa sia diventata Milano si capisce da molte cose, compresa lo stato del Garage delle Nazioni che oggi rischia di essere sacrificato sull'altare della rigenerazione urbana. La Società Lombardia Parcheggi, che ne è il proprietario, ha deciso di abbatterlo per costruire al suo posto un complesso alberghiero dominato da due torri, una da 14 e l'altra da 9 piani. Meno simbolico ma più redditizio. L'unico omaggio al passato sarebbe un parcheggio sotterraneo e l’originalissimo nome: Parking Hotel. Quando si dice la creatività.
Ma questa storia milanese in realtà diventa apologo di tutta l’Italia, di tutti noi che in pochi anni abbiamo smarrito il senso dell’estetica facendolo naufragare nemmeno nell’economia ma nella crestomazia. Noi che a forza di non studiare, non meravigliarci, di non guardare in alto fatichiamo a riconoscere il valore culturale di edifici che apparentemente funzionali ma che in realtà hanno segnato un'epoca del Paese. Perché il Garage delle Nazioni non era un’autorimessa ma il simbolo di un'Italia concreta e sognatrice, che credeva nel futuro, che faceva dell'automobile un elemento di identità sociale, che voleva un’architettura funzionale che sapesse emozionare.
Per la cronaca, la battaglia legale va avanti da sette anni. Da una parte la Sovrintendenza, che ha capito il valore storico dell'edificio. Dall'altra la proprietà, che vede solo metri cubi da vendere come la stragrande quantità di sviluppatori. Per una volta, l’intero consiglio comunale all’unanimità si era espresso in difesa del Garage delle Nazioni. Caso unico in una città smarrita teatro di una comunità che non ricorda nulla non tanto di estetica o di architettura ma soprattutto di se stessa. Perché ha perduto l’anima, cioè il legame che tiene insieme il passato e il futuro, la terra e il cielo.
Come finirà non è chiaro, anche se qualcuno diceva che si segue sempre la volontà universale che al moment lavora per l’oggi e non per il domani.
Se sarà così non si perderà un edificio ma un pezzo di storia, fatta di sogni, speranze e automobili, che invece di generare poesia in cielo torneranno a trasportare persone sulla terra.
Immagine di apertura: © Gabriele Basilico/Archivio Gabriele Basilico

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