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L’architettura dello zoo: una narrazione attraverso 10 “zootopie”

Attraverso più di cento anni di progetti di zoo, esploriamo il complesso rapporto tra uomo e animale in cattività, tra artificio e natura, etologia e progettazione dell'habitat.

di Davide Montanari

Zoo umani è un volume pubblicato in Francia nel 2003. Nell’antologia – che intercetta l’attenzione mediatica per i primi reality show di quegli anni – viene raccontata e analizzata la pratica storica di esporre esseri umani “esotici” o “selvaggi”. Si tratta di una consuetudine diffusa tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, nel pieno del positivismo e del tardo positivismo: un’epoca in cui il pensiero scientifico dominante considerava l’uomo bianco e occidentale come apice dell’evoluzione biologica.

Gli “altri”, esseri umani provenienti dalle colonie e spesso in condizioni di semi-schiavitù, venivano esibiti come curiosità viventi o fossili umani. Il quadro teorico che sosteneva queste pratiche era lo stesso che, decenni più tardi, avrebbe ispirato i musei etnici immaginati dai nazisti per le popolazioni slave ed ebree.

L’esposizione di esseri umani come animali è un modo d’impatto – per quanto brutale – per comprendere il fenomeno dello zoo in senso lato. Con l’epoca delle esplorazioni e della colonizzazione moderna, l’Europa si ritrova invasa da una quantità crescente di specie “esotiche”, sia animali che vegetali. Questi “alieni” vengono da un lato ordinati secondo gerarchie teoriche nei cataloghi scientifici, e dall’altro esposti nei musei. Ma per gli esemplari vivi, lo spazio espositivo diventa lo zoo.

Panda House – BIG (Bjarke Ingels Group), Copenhagen Zoo, 2018. Foto Kevin Christensen

Questo fenomeno si colloca a cavallo tra la divulgazione scientifica e il freak show: gli animali esotici vengono rinchiusi in gabbie e mostrati a un pubblico occidentale – in particolare europeo, ma anche statunitense – come creature di mondi lontani e inaccessibili. In alcuni casi si cerca persino di costruire “habitat” artificiali che imitino le condizioni di vita originarie delle specie.

Uno dei primi esempi è il Jardin d’acclimatation di Parigi, fondato nel 1860 con l’obiettivo di “acclimatare” gli animali esotici alla vita europea. Durante l’assedio di Parigi nella guerra franco-prussiana, molti di questi animali vennero uccisi e mangiati. Un secolo più tardi, John Berger pubblica Why Look at Animals?, un saggio fondamentale in cui interpreta lo zoo come un luogo in cui l’uomo guarda l’animale ridotto a prigioniero.

Proprio in questa cornice controversa, si sviluppa una storia dell’architettura ai margini delle narrazioni canoniche, ma che ha saputo generare alcune tra le più inedite sperimentazioni del Novecento. In un certo senso, la ricostruzione di un habitat artificiale che interpreta e mette in scena quello originario e naturale, rivela una profonda ambiguità diventando una sfida tanto tecnica quanto poetica. Luoghi complessi, a metà tra simulazione e dispositivo museale – gli zoo raccontano non solo di come l’uomo vede tutto ciò che è altro da sé, ma forniscono anche un interessante contributo sul legame tra architettura e rappresentazione della natura.

Sul finire del XIX e l’inizio del XX secolo, con la nascita delle Esposizioni Universali, gli zoo si sono configurati come dispositivi di osservazione, spettacolo e didattica. In questo contesto, l’architettura ha avuto un ruolo decisivo, contribuendo a codificare le modalità attraverso cui l’umano organizza la propria relazione con ciò che è altro da sé. Già negli anni Quaranta, il teorico Frederick Kiesler nel suo manoscritto Magic Architecture dedicava una ampia riflessione agli habitat del non umano e la a sua riscoperta negli anni Sessanta ha contribuito a influenzare una corrente progettuale, specialmente in Austria e Francia, che ha avviato una ricerca sullo zoomorfo.

Caso esemplare, in questo contesto, è la Penguin Pool disegnata da Berthold Lubetkin – figura centrale del Razionalismo britannico – insieme al suo gruppo Tecton per lo Zoo di Londra nel 1934. Questa, insieme alla successiva Gorilla House, anticipano l’idea di uno zoo come macchina architettonica complessa, esplorando la tensione tra la plasticità del calcestruzzo e nuove esigenze etologiche. A distanza di decenni, lo stesso spirito sperimentale riemerge in progetti come la Snowdon Aviary, sospesa tra ingegneria e visione, o la recente Elephant House firmata da Foster + Partners a Copenaghen, che reinventa il padiglione zoologico come spazio di coesistenza.

La selezione di progetti qui proposta attraversa periodi e geografie differenti: dal Casson Pavilion presso lo Zoo di Londra, dove forme zoomorfe incontrano suggestioni brutaliste, o la grande voliera tropicale realizzata al Jurong Bird Park di Singapore. Si tratta di una narrazione per episodi relativa ad alcune trasformazioni che hanno investito l’architettura degli zoo tra il XX e l’inizio del XXI secolo. Architetture, ecosistemi tecnologici, spazi ibridi che si configurano come strumenti narrativi: strutture che mediano tra specie e spettatore, spazi progettati dall’umano che si lasciano interrogare e plasmare, alle volte, da corpi e comportamenti non umani. Gli episodi qui raccolti testimoniano il controverso tentativo di disegnare gabbie e contenitori, ma allo stesso tempo scenografie, immaginari e dispositivi tecnici che cercano di mitigare la cattività secondo le nuove sensibilità legate alla tutela del benessere degli animali. 

Gorilla House – Berthold Lubetkin e Tecton, London Zoo, 1932

Gorilla House – Berthold Lubetkin e Tecton, London Zoo, 1932 © Tony Hisgett, Wikipedia Commons, licenza CC BY-SA 2.0

La Gorilla House, realizzata da Lubetkin e il gruppo Tecton nel 1932, introduce un rinnovato lessico all’interno dell’architettura per gli zoo. Questa non è semplicemente un contenitore per animali esotici, ma una dichiarazione sull’ethos modernista: razionalità strutturale e chiarezza funzionale generano un habitat capace di dichiarare la propria artificialità, posizionando l’animale in una scena architettonica leggibile.

L’uso del cemento armato e la composizione plastica dei volumi richiamano la lezione formale di Le Corbusier, ma il progetto rivela una tensione tutta inglese verso la dimensione pubblica e pedagogica dell’architettura. In questa “casa per altri”, si riflette l’ambizione di umanizzare lo spazio, anche quando l’ospite non è umano, in cui un organismo in cemento armato traduce l’ideale corbusiano della “machine à habiter” in una “machine à montrer” per altre forme di vita.

Snowdon Aviary – Cedric Price, Lord Snowdon, Frank Newby, London Zoo, 1962–1965

Snowdon Aviary – Cedric Price, Lord Snowdon, Frank Newby, London Zoo, 1962–1965 © Steve Cadman, Wikipedia Commons, licenza CC BY-SA 2.0

Frutto di una collaborazione inedita tra un architetto visionario, un ingegnere sperimentale e un fotografo di corte, la Snowdon Aviary segna un momento di discontinuità nell’architettura per gli zoo del dopoguerra. Cedric Price non progetta un edificio, bensì un’infrastruttura aerea, sospesa: un’architettura in tensione, composta da spigolose membra d’acciaio e alluminio, avvolte da una sottile pelle, capace di accogliere il volo come principio spaziale. La prima intenzione del progetto è di sovvertire la logica della gabbia: cavi, tubi e reti compongono un paesaggio filiforme, tecnologico e dinamico. Una scenografia dai contorni permeabili, percorribile, pensata per lo sguardo e il movimento.

Casson Pavilion – Sir Hugh Casson, London Zoo, 1962–1965

Casson Pavilion – Sir Hugh Casson, London Zoo, 1962–1965 © Chris Allen, Wikipedia Commons, licenza CC BY-SA 2.0

Nel cuore dello Zoo di Londra, il Casson Pavilion emerge come uno dei più raffinati esempi del brutalismo postbellico, dove materiali come la pietra, il cemento e il vetro si confrontano con una geometria grezza, primitiva e rugosità che definiscono il corpo massiccio dell’edificio.

Progettato da Sir Hugh Casson tra il 1962 e il 1965, chiamato a ridisegnare l'ex casa per elefanti e rinoceronti, il progetto sceglie di adottare la grammatica delle forme brutaliste unita a suggestioni formali zoomorfe. L’idea del progetto si intreccia con la volontà di offrire agli animali un ambiente che rispondesse alle nuove concezioni etologiche degli spazi zoologici, proponendo un’architettura dove il linguaggio materico diventa parte integrante dell’immaginario animale.

Oggi dismesso, resta come testimonianza di una stagione in cui l’architettura andava ricercando un equilibrio tra funzione, simbolo e monumentalità.

Monkey House – Hascher Jehle Architektur, Stoccarda Zoo, 1956 (ristrutturata)

Monkey House – Hascher Jehle Architektur, Stoccarda Zoo, 1956 (ristrutturata) © Brücke-Osteuropa, Wikimedia Commons

Nata nel secondo dopoguerra come padiglione per grandi primati, la Monkey House dello Zoo di Stoccarda è stata oggetto, nel tempo, di un profondo ripensamento architettonico.

La ristrutturazione dello studio Hascher Jehle Architektur trasforma l’impianto originale del 1956 in uno spazio in cui la trasparenza si configura come principio fondativo del progetto.

La volontà dell’intervento è di superare il recinto come dispositivo punitivo, aprendo invece a una visione relazionale tra specie. La grammatica delle forme brutaliste sopravvive nei volumi essenziali, ma viene alleggerita dall’uso del vetro e dalla flessibilità degli spazi. In questo padiglione reinventato, l’architettura spazio di filtro tra il comportamento animale, percezione umana e responsabilità ambientale.

The Waterfall Aviary at Jurong Bird Park – Singapore, 1971

The Waterfall Aviary at Jurong Bird Park – Singapore, 1971. Foto tapanuth da Adobe Stock

Il parco tropicale di Jurong, aperto nel 1971 e oggi chiuso, racchiudeva un ecosistema dove una vegetazione esuberante si intreccia ai ritmi dell’avifauna che vi abita. Una maglia metallica, rarefatta, quasi una sottile membrana invisibile sorretta da un’esile struttura metallica, limite permeabile che contiene una natura sapientemente costruita per ricreare un perfetto habitat tropicale, dominato da un’alta cascata artificiale.

L’architettura si limita a orchestrare flussi, i riflessi della luce sui corpi vegetali e animali, le percezioni sempre diverse. Qui il contenitore scompare, lasciando emergere le relazioni dell’ambiente animale.

Elephant House – Foster + Partners, Copenhagen Zoo, 2008

Concepito all’inizio degli anni Duemila, il progetto per la Elephant House nasce da una collaborazione tra lo Zoo di Copenaghen e Foster + Partners, dove la stretta collaborazione con biologi e specialisti del comportamento animale, riflettendo la volontà di superare l’idea dello zoo come spazio di mera esposizione per concepire un ambiente generatore di relazioni molteplici.

Due cupole leggere in vetro e acciaio coprono un terreno modellato in sezione, articolando ambienti separati in un equilibrio tra esigenze etologiche e comfort climatico. L’architettura si ritrae, diventa topografia, lasciando che la luce naturale, i materiali porosi e la curvatura del suolo disegnino l’esperienza. Qui l’idea di habitat non si simula, si costruisce, in una continuità tra forma, funzione e rispetto ecologico.

Elephant House – Markus Schietsch Architekten, Zürich Zoo, 2014

Elephant House – Markus Schietsch Architekten, Zürich Zoo, 2014. Foto Albinfo da Wikimedia Commons

Markus Schietsch per la casa degli elefanti di Zurigo disegna un volume continuo, aperto, privo di spigoli, dove animali e visitatori condividono uno spazio continuo e luminoso. L’ampia copertura in legno lamellare, sorretta da una struttura reticolare a geometria complessa, definisce un ambiente interno fluido, che emula la topografia di una savana umida. Completata nel 2014, alla base del progetto vi è una lunga fase di ascolto: etologi, paesaggisti e ingegneri hanno guidato l’architettura verso un nuovo equilibrio tra forma e biologia. Luce, umidità e ventilazione sono orchestrate come elementi attivi della composizione. In questo progetto, la forma non impone: accoglie, interpreta, restituisce. Un’opera che rilegge in chiave contemporanea la responsabilità dell’uomo nei confronti delle specie che ospita.

Paris Zoological Park – Bernard Tschumi Urbanistes Architectes + Véronique Descharrières, Parigi, 2014

Paris Zoological Park – Bernard Tschumi Urbanistes Architectes + Véronique Descharrières, Parigi, 2014 © Guilhem Vellut, Wikipedia Commons, licenza CC BY-SA 2.0

La ristrutturazione del Parco Zoologico di Parigi coincide con un gesto di riscrittura: non più l’arca monumentale dell’epoca coloniale, ma un dispositivo ambientale che modella le relazioni reciproche tra milieu ambientale e vita animale. Il progetto, affidato a Bernard Tschumi in collaborazione con Véronique Descharrières, si distingue non solo per la ricchezza del programma, ma anche e soprattutto per l’impianto spaziale aperto, centrato su ecosistemi interconnessi, in cui l’architettura si ritrae per lasciar spazio al processo di co-evoluzione continua tra specie.

Il Grand Rocher – monumento del modernismo zoologico del 1934 e punto di partenza del progetto – viene preservato come punto d’ancoraggio simbolico e integrato in una rinnovata narrazione spaziale e attorno a questo nucleo, il parco si configura attraverso una sequenza articolata di ambienti immersivi. La genesi del progetto affonda le sue ragioni nella richiesta di ripensare il parco non solo come luogo di conservazione, ma come ambiente esperienziale critico. È un’architettura dell’attenzione, dove i visitatori non guardano semplicemente gli animali, ma sono immersi in un contesto ambientale progettato per rimettere in prospettiva la posizione dell’umano.

Antwerp Zoo – Studio Farris, Antwerp, 2017

Studio Farris Architects, Ristorante e voliera allo zoo di Anversa, Belgio, 2017. Foto Toon Grobet

Nel cuore dello storico zoo di Anversa, fondato nel 1843 e tra i più antichi d’Europa, Studio Farris realizza nel 2017 un intervento che riflette una raffinata integrazione tra conservazione storica e un linguaggio architettonico contemporaneo. Commissionato dalla KMDA (Koninklijke Maatschappij voor Dierkunde van Antwerpen), il progetto risponde alla necessità di rinnovare le infrastrutture espositive e di servizio, preservando il carattere identitario del sito. Il padiglione, il cui disegno sottolinea una certa padronanza nella composizione e chiarezza progettuale, si articola attraverso una successione di volumi trasparenti e rivestiti in legno, stabilendo una continuità con la morfologia del parco. La costruzione assume il ruolo di dispositivo relazionale: non impone la propria presenza, ma accompagna lo sguardo, filtrando il paesaggio, orchestrando una coreografia misurata che coinvolge il visitatore, gli animali e il contesto che la ospita. È un’architettura di soglia, che rende poroso il confine tra soggetto che osserva e soggetto che riceve lo sguardo.

Panda House – BIG (Bjarke Ingels Group), Copenhagen Zoo, 2018

Panda House – BIG (Bjarke Ingels Group), Copenhagen Zoo, 2018 ® Rasmus Hjortsh

Nel 2018, lo Zoo di Copenhagen commissiona allo studio danese BIG (Bjarke Ingels Group) la progettazione di un nuovo recinto per panda, il quale si distingue per la forte componente simbolica derivante dalle forme ispirate al simbolo dello Yin-Yang. Il progetto si inserisce in un contesto di crescente attenzione verso la creazione di ambienti che riescano a dare una risposta sia alle esigenze degli animali che a quelle educative dei visitatori.

L’intento è quello di creare una sintesi tra estetica e funzione attraverso un ambiente capace di riflettere una visione olistica dell’interazione tra uomo, natura e cultura. La composizione – pur rimanendo al servizio della protezione e del benessere degli animali – grazie al suo profilo curvilineo e a un repertorio di forme ispirate al mondo organico vuole condurre verso una riflessione sul nostro rapporto con gli altri esseri viventi. Il recinto diventa così metafora di uno spazio che cerca di accogliere corpo del visitatore e corpo animale in un unico habitat, luogo che stimola una connessione empatica tra le specie che ospita, nelle sua varie forme e grado, paesaggio zoologico che promuove una relazione più consapevole tra natura, spazio e pubblico.

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