Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 964, dicembre 2012
Scheletri: capannoni, armature in cemento non terminate, infrastrutture incompiute, casali abbandonati. Tutti questi elementi raccontano di una corsa selvaggia e inebriante verso una modernità necessaria e di una rivoluzione incompleta che ha lasciato molte vittime sul terreno, vittime che oggi si rivelano come un problema difficile da affrontare. Non c'è niente di sublime nella sensazione che, ogni volta, proviamo nel guardare con attenzione ai troppi frammenti che il boom economico e i decenni seguenti hanno generato dando forma alle cartoline di un nuovo paesaggio da cui non possiamo più fuggire. A poco serve quel moralismo, velato da una malinconia pericolosa, che vorrebbe azzerare tutto e cancellare di colpo i risultati potenti e paradossali di un'intera società che ha semplicemente desiderato essere moderna ed evoluta, come tutto il resto del mondo occidentale, senza avere una completa maturità e senza disporre degli strumenti per controllare questa incredibile energia.
Il Novecento è stato per l'Italia un secolo travolgente, in cui una massa di nuovi individui ha cercato e costruito il suo frammento individuale di paradiso e benessere, non calcolando le conseguenze e l'impatto poderoso di quei milioni di balconi e di quelle centinaia di 'fabbrichette' sul nostro fragile territorio. Oggi la festa è finita e ci troviamo a fare i conti con una tavola apparecchiata inutilmente per troppi convitati, con scorie che non sappiamo come smaltire e con i postumi fastidiosi di un'ubriacatura collettiva che ha consumato energie, terreno, culture e risorse.
Tutto questo, però, potrebbe rivelarsi una grande occasione per l'architettura italiana, per la sua cultura appannata, per l'economia a essa collegata (che vive una fase di crisi strutturale) e per le università caratterizzate da pochi progetti veramente strategici. Questo mondo di scorie potrebbe diventare un laboratorio capace di avviare una fase diversa di rigenerazione territoriale e, insieme, di fare da testa di ponte per un continente intero alle prese con gli stessi problemi.
Una seconda vita
Da nord a sud, in Italia, l'incontrollato sviluppo edilizio del secolo scorso ha lasciato dietro di sé una scia di edifici incompiuti che segnano il territorio. Tre progetti italiani, realizzati con attenzione ai costi e ai materiali, dimostrano che una seconda vita è sempre possibile.
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- Luca Molinari
- 26 dicembre 2012
- Itri
Partendo dalla lotta "senza se e senza ma" al consumo di nuovo territorio, possiamo solo constatare che, oggi, la vera risorsa su cui lavorare e sperimentare sta nelle migliaia di scheletri in calcestruzzo, di architetture sotto-utilizzate e di relitti abbandonati che attendono un pensiero nuovo, visionario e coraggioso. Non si tratta di avviare progetti faraonici—che non avrebbero né le risorse né la spinta ideale e politica per essere immaginati—quanto, piuttosto, di fornire strumenti amministrativi e progettuali diversi, per attuare la rigenerazione minuta di tutti quei frammenti utili, ma negletti, sparsi sul nostro territorio insieme, magari, con un'opera altrettanto coraggiosa di abbattimento e ritorno alla natura delle scorie più indigeste.
Oggi stiamo vivendo un decisivo salto di scala e di mentalità, passando dalla tradizionale formula della sostituzione e del restauro edilizio, che ha fatto la fortuna e la vitalità dei nostri centri storici, a processi più complessi e diffusi di ricostruzione e rigenerazione dell'esistente su scala metropolitana. Assisteremmo, quindi, a un passaggio significativo, soprattutto rispetto al tipo e alla qualità dei manufatti da ripensare in ambito progettuale. Questo salto di scala territoriale non intaccherebbe minimamente l'identità propria della cultura architettonica italiana—che mescola con sapienza qualità degli spazi, gerarchia tra i luoghi, misura umana, attenzione nel lavorare con risorse limitate e controllo dei materiali. Nel nostro Paese, in questi ultimi 15 anni, possiamo già individuare una serie di sperimentazioni che rappresentano un'altra via nella costruzione di un approccio alternativo agli strumenti tradizionali.
Questo mondo di scorie costruite potrebbe diventare un laboratorio capace di avviare una fase diversa di rigenerazione territoriale
Se incrociamo, infatti, l'azione di rilettura delle periferie metropolitane di gruppi come Stalker, A12, Cliostraat, Multiplicity con la potenza visionaria applicata ai manufatti abbandonati dai disegni di Beniamino Servino e Cherubino Gambardella, passando per i progetti di recupero degli scheletri milanesi presentati dallo studio Albori (Emanuele Almagioni, Giacomo Borella, Francesca Riva) all'XI Biennale di Venezia o l'intervento di densificazione della periferia di Bolzano studiato da Metrogramma, ritroviamo una sottile traccia di ricerche individuali potenzialmente percorribili. Rappresentano, forse, gli scenari sperimentali più estremi, facendo da controcanto a una dimensione edile più elementare e realistica: quella che sta producendo una domanda crescente di progetti che partono, ogni volta, da manufatti esistenti. Realizzati recentemente, spesso di bassa qualità, si prestano a essere buone basi per interessanti riconversioni.
Partendo da storie simili, ma distanti geograficamente, tre diversi progetti—completati recentemente da Gambardellarchitetti (Cherubino Gambardella e Simona Ottieri) sulle colline tra il golfo di Gaeta e quello di Sperlonga; dallo studio Albori a Ispra, in provincia di Varese; e da Laboratorio Permanente (con Sylos Labini Ingegneri Associati) nei pressi di Bari—ci raccontano questo fenomeno italiano. Ci confrontiamo, innanzitutto, con tre occasioni che nascono dal ridisegno di strutture esistenti: uno scheletro in cemento armato sulle alture che dominano il mare; un fienile in cattive condizioni sul lago Maggiore; e l'ex abitazione del direttore dell'aeroporto di Bari, in attesa di ricevere una nuova destinazione. I vincoli fisici e amministrativi diventano il sentiero lungo il quale si muovono con grande abilità tutti i progettisti: ognuno seguendo le proprie personali ossessioni, ma dando forma a corpi di fabbrica inediti e carichi di grande sensibilità. Pesano, chiaramente, le storie e le maturità di percorso differenti. L'opera barese, a tutti gli effetti, è l'opera prima di Laboratorio Permanente, studio fondato nel 2010 da Nicola Russi e Angelica Sylos Labini, mentre le due abitazioni di Gambardella e Albori si localizzano lungo una traiettoria molto più densa.
Lontani per posizioni geografiche (Napoli; Milano) e riferimenti culturali (Ponti, Hejduk e l'architettura napoletana del secondo dopoguerra; Umberto Riva e Alvaro Siza), Gambardella e Albori coltivano da anni una speciale attenzione per le qualità sottili e popolari di quell'architettura senza architetti che, da Pagano a Bernard Rudofsky, hanno appassionato tante generazioni alla ricerca di una modernità domestica, calda e per tutti. La passione sperimentale, e quasi guascona, per i materiali e per il loro accostamento è un altro elemento che li avvicina (così come l'uso molto personale e originale del disegno), anche se potremmo trovare una distanza solo apparentemente siderale tra i legni poveri e coloratissimi dello studio milanese e i metalli e le ceramiche rotte prediletti da quello napoletano.
Eppure, in entrambi i casi, le due abitazioni sono risolte attraverso una forzatura mono-materica: lo scheletro in cemento della casa di Gambardella viene ingabbiato con un prisma deformato, rivestito da un craquelé di ceramica bianca sospeso su un sottile zoccolo di Vietri arancione; mentre il fienile di Albori diventa una legnaia strutturale che lo avvolge soprattutto nel suo lato soleggiato. Sono piccole e potentissime opere, che usano la materia con ironia e radicalità trasformando le due residenze in piacevoli paradossi nei quali sarà bello abitare. Diverso è il caso dell'edificio barese, destinato ad asilo nido, che usa con intelligenza una costruzione esistente, componendo con due corpi sovrapposti un'interessante relazione tra la corte bassa intima e protetta e il tetto promenade che la sovrasta. L'intelligenza tipologica e organizzativa supplisce a qualche fragilità linguistica, comprensibile in un primo incarico così delicato.
Rimane comunque interessante avvicinare queste opere proprio per l'intelligenza e la capacità, domestica e visionaria, attraverso cui i progettisti hanno guardato a un tema così diffuso da diventare, nei prossimi anni la croce, o la delizia, di una parte interessante della nostra cultura architettonica.
Luca Molinari