La ricostruzione del più famoso teatro lirico del mondo ha aspramente diviso l’opinione pubblica milanese. Servizio di Lee Marshall. Fotografia di Phil Sayer.

Visto dalla piazza, il Teatro alla Scala di Giuseppe Piermarini sembra avere molta affinità con il carattere di Milano e dei milanesi di una volta: elegante, sobrio, solido, poggia il raffinato corpo superiore (in marmo di Viggiù color crema chiaro) su una robusta base di granito grigio. Il 3 agosto 1778, giorno dell’apertura, le 2200 persone presenti alla serata inaugurale assistettero alla rappresentazione del melodramma di Antonio Salieri Europa Riconosciuta.

Oggi nel teatro si svolge tutt’altro tipo di melodramma. Al di là dell’arco di proscenio, chiuso temporaneamente con assi, il visitatore si trova di fronte a una scena di completa devastazione. Tutta l’area del palcoscenico e del retropalco è stata sventrata fino ad arrivare ai muri perimetrali dell’edificio. L’impressione di un cataclisma è rafforzata dal grande cratere aperto là dov’era il palcoscenico; dall’altro lato dell’abisso, l’acqua cola nel vuoto da una tubatura.

Questo scenario apocalittico non è il prodotto dell’immaginazione di uno scenografo pazzo: è il risultato della decisione, aspramente contestata, del Consiglio Comunale di Milano di procedere non soltanto a un indispensabile aggiornamento tecnico del retropalco, ma anche di coinvolgere Mario Botta in un intervento di tipo architettonico.

I teatri lirici suscitano profonde passioni. Più che il museo d’arte, la sala da concerto, la stazione ferroviaria o l’aeroporto, è la presenza del Teatro dell’Opera a segnare il confine fra metropoli e città di provincia. Agli antipodi d’Europa, per esempio, dimostrarono di avere hanno ben capito questo concetto gli abitanti di Sydney, quando affidarono a Jørn Utzon il compito di realizzare il nuovo tempio dell’opera: che è poi diventato un landmark e il simbolo della città. Cardiff invece ha rivelato di avere una visione sostanzialmente ristretta delle proprie potenzialità; dopo che Zaha Hadid aveva vinto un concorso per la progettazione del Teatro dell’opera, e la città rifiutò di costruirlo.

Eppure le tempeste provocate dalla costruzione di nuovi teatri d’opera sono nulla al confronto delle passioni scatenate dalla ristrutturazione dei teatri esistenti. Tra tutti i vecchi teatri lirici del mondo, nessuno può suscitare sentimenti di attaccamento così profondi e radicati come La Scala. Quando gli autori del programma di informazione satirico “Striscia la notizia” hanno noleggiato un elicottero per filmare la scena della devastazione al di là dell’arco di proscenio, le proteste si sono scatenate ancora di più.

Carla Fracci, decana delle ballerine italiane e direttore del corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma, ha dichiarato: “Non avremo più il nostro teatro, l’abbiamo perduto per sempre”. Luciano Damiani, veterano degli scenografi, che ha lavorato alla Scala per più di cinquant’anni, ha parlato di “disastro”.

Certo da tempo era noto il bisogno di sottoporre La Scala a una ristrutturazione di ampia portata. Nel 1990, il nuovo Sovrintendente Carlo Fontana aveva avvertito che il teatro “versava in grave stato di ammaloramento e inadeguatezza impiantistica”. A una conferenza stampa indetta l’anno scorso per rendere pubblico l’inizio dei lavori (che dovrebbero durare 859 giorni, ben più di due anni), prima che l’attività teatrale fosse trasferita nella sede provvisoria costruita su progetto di Vittorio Gregotti alla periferia nord di Milano, il vicesindaco Riccardo De Corato ha sostenuto che l’intervento “permetterà agli utenti del Teatro di lavorare e vivere in condizioni di benessere”. E involontariamente ha aizzato le proteste degli avversari del progetto (che costerà ai contribuenti 40 milioni di euro) paragonandolo con bizzarro entusiasmo a un “albergo a quattro stelle” e a “uno stadio per 35.000 persone”.

La ristrutturazione dell’area del retropalco, che deve ospitare le attrezzature tecniche sempre più sofisticate richieste oggi per la messa in scena delle opere liriche, è una decisione alla quale si sono dovuti risolvere quasi tutti i grandi teatri d’opera storici: dal Covent Garden di Londra alla Staatsoper di Vienna. Alla Scala, questa parte puramente funzionale dell’edificio era già stata rinnovata radicalmente per l’ultima volta nel 1921: nella sua forma più recente, prima della demolizione, si presentava come un insieme disorganico di soluzioni aggiunte via via secondo necessità.

Una delle poche parti ritenute degne di essere conservate è l’ingegnoso palcoscenico di legno progettato da Lorenzo Sacchi nel 1937, costituito da una serie di pannelli che scendono e salgono azionati da pompe idrauliche. Il palco è stato smontato e il Consiglio Comunale di Milano ha promesso che sarà rimontato in uno dei padiglioni dell’ex-fabbrica Ansaldo, dove dovrebbe trovare sede anche il nuovo Museo della Scala.

La sala in gran parte ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e il cosiddetto “avancorpo” di facciata sono oggetto di un intervento che segue i criteri del restauro conservativo moderno: a opera di un gruppo di progettisti guidato da Elisabetta Fabbri, incaricata anche del coordinamento dei lavori per la parte decorativa della Fenice di Venezia, prossima a rinascere. Elisabetta Fabbri tiene a precisare che in un certo senso il Teatro alla Scala che dovrà essere riconsegnato alla città nel dicembre del 2004 sarà più vicino all’originale settecentesco di quanto non lo sia stato da anni.

Sotto ben undici strati di pittura sono state ritrovate parti in marmo d’epoca color ocra; dalla rimozione dei pavimenti di linoleum dei palchi sono emerse le vecchie piastrelle di cotto; e sono venuti alla luce frammenti di rivestimenti murali di seta rossa dell’inizio dell’Ottocento. L’intenzione dunque è di restaurare tutti questi elementi: o, nel caso dei rivestimenti murali, di riprodurli, per tornare il più possibile alle forme originali.

Il restauro dell’interno della Scala è comunque un intervento relativamente poco controverso; il bisogno di aggiornare palcoscenico e macchine teatrali è riconosciuto da tutti, a parte alcune piccole frange di irriducibili conservatori. La vera preoccupazione nasce invece da ciò che sta accadendo sul tetto dell’edificio (dove negli anni si era accumulato un insieme disordinato di piccole e grandi “superfetazioni tecniche”) e il modo in cui questo intervento è stato imposto alla città.

Il rinnovamento della Scala è sostanzialmente opera di due architetti, Giuliano Parmeggiani e Mario Botta. Su richiesta del Consiglio Comunale di Milano, Parmeggiani aveva elaborato un progetto al fine di “definire funzionalmente le esigenze di un moderno teatro lirico”. Non è stato indetto alcun concorso, contro la legge italiana che lo prescrive per “lavori di particolare rilevanza sotto il profilo architettonico, ambientale, storico ed artistico”. Scrive Adalberto Dal Bo, dell’Ordine degli Architetti della Lombardia, in un saggio sulla vicenda della Scala: “se non si ritiene questo il caso per un concorso, per quale altra opera si può pensare che il Comune di Milano ne debba proporre?” Il “progetto definitivo” di Parmeggiani –progetto sostanzialmente di conservazione – è stato approvato dal Consiglio Comunale due anni fa.

La gara d’appalto è stata vinta da CCC di Bologna. Come richiesto dalla legge, CCC ha poi nominato un proprio architetto, nella persona di Mario Botta, per la messa a punto del “progetto esecutivo”. Il nome di Botta è stato imposto dall’eccentrico Sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, poi sollevato dall’incarico dallo stesso Berlusconi che ne aveva voluto la nomina. Come Sgarbi forse non si aspettava, Botta ha trasformato quello che doveva essere il più discreto degli interventi di rinnovamento interno in un’occasione di lasciare il proprio segno su uno dei più celebri templi della cultura del mondo, inserendo surrettiziamente un paio di “escrescenze” aggressive e non necessarie sul tetto della Scala e rivelandole al pubblico solo dopo l’inizio dei lavori.

La legge afferma che “il progetto esecutivo costituisce l’ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni” (art. 33 della legge Merloni). Il progetto di Botta invece – passato senza l’approvazione formale da parte del Consiglio Comunale, in un modo che successivamente un giudice avrebbe sarcasticamente definito “innovativo” – va ben oltre. Se ne coglieva bene il senso nel corso di una visita dei giornalisti al cantiere della Scala (autorizzata finalmente dal Comune dopo un sorta di sollevazione popolare), dove i modelli dei progetti Parmeggiani e Botta erano esposti accanto al modello della struttura preesistente. All’esterno, il progetto Parmeggiani si discosta dall’edificio storico solo per il grande e piatto corpo di ampliamento in copertura, dai bordi ricurvi, pensato per coprire la nuova area del retropalco e accogliere le macchine teatrali più moderne.

Botta propone invece un paio di strutture molto più radicali: una grande torre scenica di forma quasi cubica, che si eleva immediatamente dietro due torri dell’acqua degli anni Trenta (conservate su richiesta della Sovrintendenza per i Beni Architettonici), e un volume ellittico di dimensioni minori posto sopra l’ampliamento creato negli anni Venti sul lato lungo via Filodrammatici. Dall’alto, questa struttura ellittica, che ospiterà i camerini, le sale di prova e la sartoria, sembra un inquietante siluro, che minaccia le strette strade del centro storico di Milano. Le nuove strutture saranno realizzate in botticino - il marmo di un bianco abbagliante che è già invecchiato piuttosto male nel Vittoriano di Roma – ma in un’altra varietà: nel caso della Scala, un tenue colore miele-rosato.

Un’azione legale intentata da Legambiente contro il progetto di Botta è stata respinta dal TAR (Tribunale Amministrativo Regionale) in tutti i punti, eccetto uno: i giudici hanno riconosciuto che quello di Botta è un progetto sostanzialmente nuovo, e non la versione esecutiva di un progetto esistente. Come tale avrebbe dovuto essere formalmente approvato dal Consiglio Comunale, ai cui membri era stato impedito perfino di visitare il cantiere. Il vicesindaco De Corato ha subito annunciato che l’approvazione è imminente: ma nel frattempo i lavori, iniziati nell’aprile 2002 con la demolizione del palcoscenico, continuano, poiché “tutti gli interventi finora realizzati sono in linea con il progetto Parmeggiani, approvato dal Consiglio Comunale”.

Il mese scorso, durante la visita dei giornalisti, De Corato, smagliante in un giubbotto da lavoro beige con la scritta “Cantiere della Scala” ovviamente sponsorizzato da una delle imprese costruttrici, ha incredibilmente dichiarato che i lavori potranno “tranquillamente” continuare fino al settembre di quest’anno, prima che si renda necessaria l’approvazione del Consiglio Comunale per proseguire.

Interrogato su quale sia la differenza fra il suo progetto e quello di Parmeggiani, Botta ha risposto che a lui è stato chiesto di “modificare la parte che emerge dai tetti per darle un’immagine più incisiva”. I volumi finali, sostiene Botta, in realtà saranno inferiori di 60 metri cubi rispetto a quelli previsti dal “progetto definitivo”, si dichiara anzi orgoglioso del fatto che il suo progetto riporterà la copertura dell’edificio sul lato di via Filodrammatici al livello di gronda della fine dell’Ottocento. L’idea di fondo, afferma Botta, è quella di “recuperare le parti vecchie dell’edificio e completarle con una parte nuova, che nuova sia veramente”. Citando il filosofo Karl Kraus, ricorda che “anche la vecchia Vienna una volta era nuova”.

Chiunque cerchi di seguire le intricate vicende del progetto La Scala farà dunque bene in ogni caso a tenere a mente le parole di W.H. Auden: “La trama di una buona opera lirica non può essere sensata, perché nei momenti di buon senso la gente non canta”. Sicuramente infatti non sembra esserci alcuna ragione sensata per imporre allo storico edificio della Scala le semplificate geometrie e le fasce di tipica marca bottiana. La Scala non è a San Francisco, non è una struttura costruita ex novo, e fra i suoi intenti non ha certo quello di essere un museo d’arte contemporanea.