L’enorme scultura di Anish Kapoor domina la Tate Modern a Londra. Reportage di Mark Irving. Fotografia di Red Saunders

Qualche cosa accade all’arte, quando diventa veramente ‘grande’, finisce per uscire dal suo chiuso ambito e per ‘colonizzare’ altri campi dell’attività umana: l’architettura, lo sport o l’industria dell’intrattenimento. Questo può generare confusione, perché a noi piace pensare che l’arte sia qualcosa di speciale, che occupa un posto unico nel nostro cuore e nella nostra mente: ma quando essa comincia ad aver bisogno dell’opera di una società di ingegneria, di permessi degli enti preposti alla salvaguardia della salute e della sicurezza, di una squadra di operai edili, allora è naturale che ci si interroghi sulle possibili distinzioni a questo proposito. Poiché le tecnologie si confondono e si sovrappongono, occorre riesaminare il modo in cui i principali partecipanti all’impresa parlano di sé e della natura del loro lavoro. L’installazione del Leviatano di Anish Kapoor nella Turbine Hall della Tate Modern è un esempio che viene a proposito.

Battezzato Marsia, il progetto è il terzo di una serie commissionata da Unilever: l’autore del primo è stata Louise Bourgeois, quello del secondo il compianto Juan Muñoz. Questa nuova opera occupa tutta la lunghezza della Turbine Hall: 155 metri per una larghezza di 23 e un’altezza di 35. È l’opera di maggiori dimensioni che l’artista abbia mai realizzato, e consiste di una grande ‘calza’ formata da una membrana di PVC color rosso sangue, tenuta ben tesa da tre enormi anelli di acciaio: uno a un’estremità, uno all’altra della sala, e il terzo sospeso orizzontalmente al centro, due metri e mezzo sopra la passerella pedonale che divide a metà lo spazio. L’anello d’acciaio posto all’ingresso ovest della sala ha forma ovale ed è inclinato di qualche grado verso il muro di fondo; quello all’estremità est è rotondo ed è piegato da un lato, così da evitare l’ultima delle ‘scatole’ verdognole di Herzog e de Meuron che caratterizzano l’interno della galleria.

L’anello orizzontale posto al centro è sospeso sopra la passerella grazie alla tensione del sistema interno di supporto della membrana di PVC, che, elevandosi di parecchi metri al di sopra, è teso da un’estremità all’altra dell’installazione. L’effetto è spettacolare: sembra di vedere due grandi bocche rosse che succhiano. Fra l’una e l’altra c’è un allentamento della tensione, accuratamente calcolato ed equilibrato, in corrispondenza del centro del tubo, dove l’anello mediano incornicia un taglio rotondo nella membrana, consentendo ai visitatori di guardare in alto e di immergersi in una nuvola di spazio rosso. “Ciò che mi affascina è il brivido che dà questa dimensione, questa monocromia”, dichiara Kapoor, mentre ci facciamo strada con circospezione attraverso il passaggio segnato da funi e fra le pile di membrane di PVC piegate, in attesa di essere tese per completare l’installazione. Kapoor indossa un giubbotto di sicurezza di un giallo vistoso che dietro, a sua insaputa, porta la scritta “Art Technician”.

“La passerella al centro ha posto qualche problema” continua “Rompe decisamente lo spazio e lo divide in due zone principali. Io posso fare due cose: oppormi a questa interruzione oppure usarla per legare tutto lo spazio assieme e rendere questo passaggio un’esperienza per il visitatore. Così si creano tre episodi distinti, collegati da un grande manicotto”. Nella carriera di Kapoor ci sono altri precedenti di questa mega-opera: i due più riconoscibili sono l’installazione Taratantara per Baltic, la nuova galleria d’arte di Gateshead nel nord dell’Inghilterra, e la scultura The Edge of the World, presentata nel 1996 alla mostra personale di Kapoor presso la Hayward Gallery di Londra. Nella prima opera l’artista lavorò su un edificio non finito, un vecchio mulino, che allora si presentava come una specie di enorme scatola senza coperchio. Fatta anch’essa di una membrana di PVC (ma di una tonalità più chiara, più rosa, e di dimensioni che erano la metà di quelle del Marsia della Tate) l’installazione molto suggestivamente evocava il senso di un immenso respiro – inspirazione ed espirazione – e sembrava così esprimere il potenziale nervoso della trasformazione che era in atto nell’edificio: insomma, sembrava avere intenzioni ‘opportunistiche’.

Con la seconda opera Kapoor studiava la reazione dei visitatori che, trovandosi a camminare sotto un oggetto rotondo un po’ minaccioso, simile a un globulo rosso ingrandito, potevano fare l’esperienza del sottile confine della scultura, e forse anche della vicinanza a fenomeni molto diversi dal conosciuto e dal quotidiano. “Ho avuto una certa resistenza a usare ancora un volta la membrana”, ricorda Kapoor parlando dell’installazione alla Tate. “Abbiamo studiato altre possibilità: un oggetto seduto sul ponte, qualcosa che assomigliava a un grande fagiolo, ma sentivo che non era abbastanza, che si riconosceva troppo facilmente come una forma fatta da me”. Le ambizioni dell’artista erano ben maggiori: “Volevo ribaltare l’edificio, spostare la prospettiva dal verticale all’orizzontale”. Chiunque conosca la silhouette della Tate Modern sa che una scelta del genere significa una ‘demolizione’ metaforica dell’architettura (l’unica volta che ho sentito Kapoor esprimere una vera antipatia per un edificio è stato quando mi disse che gli sarebbe piaciuto vedere ‘demolita’ la Hayward Gallery, sede della sua mostra personale del 1996). L’artista amplia la sua riflessione: “Le proposte del modernismo si orientano verso la forma fallica, ma oggi viviamo in un’epoca diversa. Carl Andre, per esempio, propone e riafferma la forma piatta, la terra, e ancora una volta le conferisce un interesse culturale”. Il riferimento ad Andre, minimalista della scultura, conferma le affinità del lavoro di Kapoor. “L’opera di Andre indica che il mondo di Dante -la discesa agli inferi- è più interessante”. L’installazione non può essere vista tutta in un colpo solo.

Bisogna passarle attorno e sotto per coglierne la dimensione. In ogni caso è definita dallo spazio e dalla struttura della sala. E questo è il motivo per cui credo che non sia un’architettura in sé: esiste infatti in rapporto all’edificio, non come parte di esso. Non ha una scala umana, e tuttavia è impossibile descriverla senza fare ricorso al linguaggio del corpo: la grande membrana a tubo è ‘vascolare’ se la si osserva dall’estremità o dall’interno, ed è ‘muscolare’ se la si guarda da fuori. “Anche la parola membrana è densa di significati. Evoca qualcosa di liquido, di caduco”, aggiunge Kapoor. E anche il titolo dell’opera è eloquente: come ogni studente di lettere classiche sa, Marsia fu scorticato vivo da Apollo per avere osato sfidare il dio nell’arte della musica. Se si ricorda questo, allora la membrana rossa e tesa acquista un significato inquietante, che può diventare ripugnante. Se si approfondisce la storia, si apprende che Marsia era mezzo uomo e mezzo satiro, e fu punito perché aveva riso di Apollo, dio delle arti. Mi domando se questa sia anche un’opera sulla punizione e sulla tragedia che stronca l’uomo quando si azzarda a sfidare le ortodossie. O forse sarebbe meglio vedervi quella parte di noi che resta ‘satirica’ (simile a un satiro) e non si trasforma in ordinata perfezione? “Marsia è stato uno dei primi martiri, credo, uno dei primi esempi di crocifissione.

E Dio sa quanto oggi siano diverse e in conflitto le opinioni sui martiri” ricorda Kapoor. Evita di rispondere alla domanda se si senta anche lui un martire come Marsia: ma è bene ricordare i suoi recenti sconfinamenti nel campo dell’architettura e della collaborazione con gli architetti. Sia nel caso del monumento commemorativo alla principessa Diana in Hyde Park, sia in quello di una proposta per i Giardini del Giubileo, sempre a Londra, a South Bank, i progettisti con i quali l’artista ha lavorato sono i Future Systems, nella cui architettura ‘blob’, rotondeggiante e dalla forma indeterminata, possono ravvisarsi echi dello stile di Kapoor. “Fare una scultura non vuol dire creare una forma più o meno interessante”, osserva Kapoor, facendo così un implicito raffronto con l’architettura. “Significa andare alla ricerca di un contenuto”. La sua esperienza con il progetto per il monumento a Diana non è stata del tutto piacevole, e ha messo in evidenza le frustrazioni di cui gli artisti – meno abituati, forse, ai concorsi e alle selezioni attraverso i quali gli architetti e i progettisti devono invece inevitabilmente passare – possono soffrire in queste situazioni. “Il processo di selezione è stato dilettantesco. L’esigenza di Buckingham Palace di essere coinvolto avrebbe dovuto essere dichiarata apertamente in partenza, invece di restare nascosta sullo sfondo” afferma Kapoor. Quanto al suo ruolo nel dar forma a una proposta per quello che in sostanza deve essere un santuario dedicato a Diana, l’artista rileva che “fare un momento commemorativo è estremamente difficile, specialmente se si rinuncia al linguaggio figurativo. Quando ci si discosta da un linguaggio di questo tipo, si presenta immediatamente un problema che va risolto. Io non sono contro il sentimento, sono contro il sentimentalismo.

Se si crea un’opera convincente, la sua statura e la sua forza risultano evidenti, parlano da sé”. Sfortunatamente la forma chiusa, con una fontana da cui zampillava acqua rossa, che Kapoor aveva proposto per il progetto del Serpentine Lake – 6 metri di altezza, 20 di larghezza – a qualcuno è sembrato troppo simbolico e ‘sanguinoso’: “È stata una reazione stupida e banale”, sbotta furioso Kapoor. Il vantaggio di una scala enorme, d’altra parte, consiste nel fatto che essa ben sopporta e assimila il linguaggio dell’astrazione, ed è meno facilmente valutabile in termini solo figurativi. Come avviene in architettura, la realizzazione di Marsia ha reso necessario anche un intervento di collaborazione, e precisamente da parte di un professionista colto e raffinato come Cecil Balmond, uno dei direttori della società di ingegneria Arup. Il rapporto fra Kapoor e Balmond è intrigante: è un fatto insolito che, per dare alle sue idee struttura e forma realizzabili, un artista debba fare affidamento su qualcuno che non sia se stesso. “Istintivamente abbiamo in comune il senso della forma. E a livello personale fra noi c’è una buona alchimia”, dichiara Kapoor. Per lui l’obiettivo principale era adattare “la realtà dell’ingegneria, che di solito è troppo invadente per l’arte. Io non volevo che si vedesse troppo. Il problema era come trasformare il linguaggio dell’ingegneria nel linguaggio della metafora artistica. Abbiamo dovuto trovare un modo per rendere invisibile l’ingegneria, per inserirla nella struttura”.

Il team di Balmond ha lavorato duramente per produrre la rete di saldature che doveva dare alla membrana di PVC la struttura, la robustezza e la consistenza necessarie, e insieme a Kapoor ha messo a punto la forma finale dell’opera. “Siamo passati attraverso diverse fasi”, ricorda Balmond. “A un certo punto abbiamo pensato a una specie di aureola di supporti metallici attorno alla membrana, impossibile però da realizzare entro i tempi assegnati. Mi assicurai che i miei schemi per Anish fossero colorati in blu e in giallo – insomma, qualsiasi colore eccetto il rosso, perché sapevo che per lui il rosso è un colore particolare”. Nonostante l’innegabile sinergia, ci sono sottili differenze di linguaggio che rivelano differenze nella prospettiva reciproca. Mentre Kapoor parla del suo lavoro in termini di “forma che diventa spazio” e definisce il lavoro dell’ingegnere in termini di “affinamento della forma”, Balmond sottolinea il fatto che “la struttura è l’unica cosa visibile. Essa è la forma. La mia arte” – si faccia attenzione a questa parola – “però non è visibile. Io volevo ampliare il linguaggio di Kapoor e spostarlo su un nuovo terreno. Ho preso un’ipotesi spaziale, l’ho considerata una sfida e l’ho portata avanti”. La collaborazione sta tutta negli accenti. “Il mio lavoro gioca sull’accrescimento e sulla diminuzione, sul mettere e togliere.

Non riguarda l’editing, ma la forma”, continua Balmond. La cosa interessante di Kapoor e Balmond è che – uno come artista, l’altro come ingegnere – sono tutti e due legati ai principi, in modo analogo. Balmond afferma chiaramente che “a me interessano i principi della struttura, ad Anish quelli dello spazio: ma l’ambiguità ci diverte entrambi”. Richiesto di spiegare quale sia secondo lui la differenza più importante fra il modo di lavorare degli artisti e quello degli architetti, Balmond osserva che “si tratta in realtà della differenza fra metafora e struttura. Gli architetti si occupano meno della metafora, mentre l’artista si pone in una prospettiva di creatività. Il suo linguaggio è auto-comunicativo, mentre l’architettura è un prodotto di gruppo, e molta parte resta fuori del controllo del singolo. La metafora è più difficile da portare a compimento, a causa della ‘diluizione’ che si produce durante il processo di realizzazione”. Non sorprende che Balmond aggiunga che “molti architetti vogliono essere artisti”. Alla domanda se abbia mai desiderato essere architetto, fa una prudente pausa prima di rispondere che quello che più lo interessa è la matematica dell’architettura. “Questa è la mia architettura”, afferma con un sorriso.

Naturalmente Kapoor non è il primo artista che affronti l’architettura con i guantoni da pugilato, in un tentativo di cooptazione del potere che la dimensione dell’architettura può offrire. Pensiamo a Christo e a Jeanne-Claude, ai loro edifici impacchettati, la trasformazione del costruito in una scultura ammantata e strana: ma c’è qualcosa di diverso e di rivoluzionario nell’opera di Kapoor che giace dentro la grande sala della Tate Modern, come un razzo in attesa di essere lanciato. “Sì, è una presenza simile a quella di un virus”, ammette l’autore. Piuttosto che camuffare l’architettura, Kapoor le offre un’alternativa – uno spazio dei sensi? Come gli architetti ritengono che gli spazi abbiano la capacità di alterare e incidere sulle esperienze della gente, così Kapoor crede che la sua opera produca effetti simili in chi viene a visitarla. Non sono certo che lo scultore Richard Serra condivida la fiducia di Kapoor sulla capacità dell’arte di affrontare l’architettura sul suo stesso terreno. “Gli architetti si trovano a un livello sociale più elevato degli scultori”, ha scritto in un articolo sulla rivista The New Yorker lo scorso agosto. Si pensi alle grandi sculture metalliche di Serra, con la loro massa poderosa, con i ‘codicilli’ che a volte l’artista lascia sui luoghi in cui esse sono posate, con la loro assoluta immobilità, e si capirà come il dibattito sulla scultura si muova fra due poli nettamente opposti.

L’atteggiamento di Serra è molto sulla difensiva, ma forse questo è dovuto al fatto che le sue opere, benché legate strettamente al luogo, restano ciò nonostante oggetti più che spazi, pur se anche ha spesso parlato degli effetti che spera esse abbiano sulla coscienza spaziale delle persone, che camminano intorno e attraverso di esse. L’installazione di Kapoor è una critica agli imperativi pressoché totalitari del modernismo, mentre alcuni recenti progetti architettonici – come i padiglioni creati da Daniel Libeskind, Toyo Ito e altri per la Serpentine Gallery di Londra – rivelano un desiderio di acquisire la qualità dell’arte. Questi padiglioni, temporanei e sperimentali, infrangono il concetto di permanenza che di solito si associa all’architettura dei grandi autori e permette agli architetti di giocare con idee che altrimenti potrebbero essere irrealizzabili.

Il fatto che queste strutture siano ‘sradicabili’ e, con un imballaggio adeguato, possano essere trasferite ed esposte altrove (dando l’impressione di essere ‘mostrate’ più che ‘costruite’), porta all’ovvia domanda: sono installazioni o sono architetture? Oppure è la nozione stessa di funzionalità che sta cambiando? Nel caso della Serpentine Gallery si afferma l’idea che un rapido avvicendamento dell’architettura da un sito a un altro sia più interessante dell’architettura radicata e permanente: e che l’architettura si consuma, come la moda, avrebbe insomma quel tipo di fluidità che fa sembrare pericolosamente fuori moda l’immobilità delle opere di Serra. La scelta del titolo fatta da Kapoor per l’opera della Tate, Marsia, allude infine al fatto che nell’arte esiste davvero una competitività feroce ad alto livello e che ha conseguenze reali e dolorose per coloro che ne fanno parte. Resta da vedere se Kapoor farà o non farà un altro passo, mettendosi a produrre uno spazio che possa vivere da sé, al di fuori di un edificio. Se questo avverrà, si dirà che è scultura, architettura o ‘mero’ simbolo? Frank Gehry potrebbe avere la risposta a questo interrogativo.