Immagine di apertura: Simon Norfolk, piscina nei pressi di Tepe Wazir Akhbar Khan, 2010–11, da Burke + Norfolk. Pubblicata in origine qui.
Francesca Recchia
Kabul. Lettera dall’Istituto Afgano di Arte e Architettura
La scuola nasce dieci anni fa in risposta al rischio che le forme tradizionali di artigianato artistico possano scomparire per colpa della guerra, delle migrazioni e dell'incuria e garantisce l’incolumità degli studenti diventando un piccolo angolo di paradiso nella città vecchia di Kabul.
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- Francesca Recchia
- 26 dicembre 2018
- Kabul
Col tempo ho imparato che i grandi discorsi servono a poco, ma i gesti e le azioni lasciano il segno. Forse lasciano un segno leggero, forse solo transitorio, ma sicuramente le cose che facciamo non passano inosservate. Così come non sfuggono il come e il perché.
Da sei mesi lavoro come direttore dell'Istituto Afgano di Arte e Architettura presso Turquoise Mountain. L'istituto è un piccolo angolo di paradiso nella città vecchia di Kabul. La scuola è nata dieci anni fa per rispondere al rischio che le forme tradizionali di artigianato artistico potessero scomparire per colpa della guerra, delle migrazioni e dell'incuria.
Con l'arrivo dei Talebani molti dei mastri artigiani hanno lasciato il Paese per paura o per mancanza di lavoro, interrompendo così il ciclo del trapasso delle nozioni e creando un vuoto di sapere difficile da colmare.
I pochi maestri che per scelta o per necessità sono rimasti nel Paese, si sono ritrovati a vivere di stenti – Ustad Hadi, per esempio, che per anni era stato l'intagliatore personale del re, era finito a vendere banane in una carriola per strada per poter sfamare la famiglia.
Il mandato iniziale dell’istituto era quello di raccogliere le fila di una storia che rischiava di essere dimenticata; oggi abbiamo studenti che imparano l’arte della miniatura e della calligrafia islamica, la gioielleria e il taglio delle pietre dure, l’intaglio e l’intarsio del legno e la ceramica con l’invetriatura blu derivata da una pianta locale. Sono ragazze e ragazzi che, mentre imparano un mestiere in grado di sostenerli economicamente, contribuiscono alla conservazione attiva del patrimonio culturale dell'Afghanistan.
Essere alla guida di una scuola del genere, preservando le storie del passato, ma mantenendo un occhio al futuro è una responsabilità importante.
È anche un’occasione unica per pensare al ruolo dei saperi tradizionali, sedimentati lentamente nel corso delle generazioni, in relazione al passo affrettato del mondo contemporaneo; per capire come mantenerli rilevanti e sostenibili senza anacronismi né fantasie romantichesu un passato ideale.
In un paese come l’Afghanistan, la mia responsabilità nei confronti degli studenti include anche garantire la loro incolumità fisica e far sì che passino la giornata in un ambiente protetto, abbiano un pasto caldo e imparino qualcosa di utile per il futuro. E questo combinato con la necessità di mantenere i più alti standard educativi e di qualità. Nel gestire una scuola con cento ragazzi fra i 14 e i 20 anni, mi è capitato spesso di domandarmi quali fossero le cose importanti da dire, quali i messaggi da comunicare. Mi ci è voluto un po’ per capire che mi ero infilata in un inseguimento inutile alla ricerca di una risposta inafferrabile.
È stato sufficiente cambiare strategia per trovare un po’ di chiarezza: ho smesso di parlare e mi sono concentrata sul far sì che le cose all’Istituto prendessero forma in maniera nuova. Cose piccole e apparentemente di poco valore, ma foriere di concetti e valori importanti che non si traducono bene in parole o istruzioni. Sono mesi che penso all’importanza della pedagogia radicale e di come sia questa la lente attraverso la quale voglio dare senso al mio lavoro. I grandi maestri che ci hanno guidato sul come pensare all’educazione in modo trasformativo, non hanno perso troppo tempo ad elaborare grandi teorie, ma hanno tracciato una strada fatta di piccoli passi – sempre condivisi e mai imposti.
Ho deciso di seguire questa direzione attraverso gesti minimi ma simbolici. Invece di chiedere agli studenti di spostare i tavoli, ho cominciato a spostarli insieme a loro. Ho cambiato la disposizione delle sedie nelle assemblee; ho chiesto alle ragazze di sedere in prima fila invece che in fondo in fondo; ho eliminato podio, pedana e posto d’onore in occasione delle visite di ospiti importanti.
Ho chiesto agli studenti di prendere iniziativa, di sentirsi padroni di casa con tutti gli oneri e gli onori che un tale status comporta e, soprattutto, di fare in modo che i propri sforzi creativi aiutino a riconoscerli come individui unici e distinti.
Il mio involontario banco di prova è stato di recente uno degli insegnanti dell’Istituto, che ha segnato alcuni di questi momenti con delle riflessioni spontanee ad alta voce, quasi fosse stato preso alla sprovvista da una inaspettata rivelazione. Il suo inglese non è perfetto, ma il suo modo di formulare le frasi rende i concetti ancora più incisivi. Qualche giorno fa mi ha detto: “Ah ho capito, quindi è così che facciamo l’uguaglianza.” Io non l’avevo pensata esattamente in questi termini, ma questo si è dimostrato il modo più efficace di dare un senso e un nome al mio tentativo di mettere in discussione la rigidità delle gerarchie e pensare insieme ad un modo diverso di relazionarci. L’altra mattina, nella nostra riunione quotidiana con i capi di dipartimento, è stato di nuovo lui a tradurre in parole mesi di lavoro. Parlavamo di collaborazione, di scambio fra discipline e di come spingere gli insegnanti ad aiutare gli studenti a moltiplicare gli orizzonti possibili. Il suo commento ha sigillato la discussione: “Da questo momento in poi all’Istituto insegniamo il pensiero aperto.”