Dalle colonne di Domus EcoWorld [in allegato a Domus 1027, settembre 2018, ndr], Leonardo Caffo muove una durissima critica al modo in cui la progettazione – dal design all’urbanistica – affronta la crisi ambientale. Il filosofo definisce gli sforzi compiuti dall’architettura green come “retorica” e spiega come sia venuto il momento di agire concretamente sull’impatto dell’antropizzazione, concludendo: “Il futuro ha l’aspetto di una capanna, non di un grattacielo”.
Come dargli torto: gli sconquassamenti provocati dalle attività umane sono talmente immensi e devastanti per gli equilibri planetari che, di certo, né la vegetazione né i pannelli fotovoltaici, messi su qualche edificio, possono costituire un rimedio. Anche perché l’innalzamento della temperatura di altri due gradi, sufficiente a innescare catastrofi di proporzioni apocalittiche perfino in questo secolo, sotto i nostri stessi occhi, sembra ormai inevitabile.
Prima degli allarmi lanciati negli ultimi decenni dalla comunità scientifica internazionale, questo appello, con la stessa durezza sferzante, fu urlato al mondo da Paolo Soleri negli anni Sessanta: l’architettura e la città, prodotti dello sviluppo culturale e tecnologico della civiltà occidentale, sono intrinsecamente insostenibili e, per questo, compito dell’architetto è immaginare nuovi scenari, nuove soluzioni. Soleri era un rivoluzionario, usò il termine “frugale” riferendolo alla costruzione di edifici e spazi comuni e capì che, restando nelle metropoli, avrebbe fatto solo retorica. Perciò si auto-esiliò nel deserto dell’Arizona e diede vita a Cosanti e Arcosanti: arcologie, micro-città, ecosistemi umani in armonia con il resto del pianeta, utopie viventi fatte di cemento modellato col terreno, di sudore, di mani e di corpi. A Cosanti, pochi anni fa,
Gli sconquassamenti provocati dalle attività umane sono talmente immensi e devastanti per gli equilibri planetari che, di certo, né la vegetazione né i pannelli fotovoltaici possono costituire un rimedio.
Soleri è morto senza essere riuscito nell’impresa, tanto coraggiosa quanto solitaria, di salvare il mondo. La storia dell’architetto torinese dimostra la spietata tesi di Manfredo Tafuri: l’architettura, per quanto ispirata da buoni propositi, non realizza utopie. Ecco perché accusare gli architetti di retorica e simbolismo rischia di essere improduttivo: a meno che non scelgano l’Aventino, come fece Soleri, gli architetti sono per definizione dei creatori di forme, di figure, di simboli; e non hanno alcun potere sulla dimensione concreta di cui parla Caffo.
Nel migliore dei casi sono ingaggiati da entità pubbliche democratiche e progressiste, nel peggiore da governi autoritari o da privati senza scrupoli: ad ogni modo – e non è storia nuova – gli architetti non agiscono per loro conto ma negli interessi di qualcun altro; qualcuno che, quasi certamente, fa parte del grande paradigma economico-culturale fondato sull’antropocentrismo. Dunque, purtroppo, nessun architetto avrebbe la forza di convincere i suoi clienti ad abbandonare la strada dei grattacieli, delle industrie e degli aerei, anche se è la strada per l’annientamento: ormai tutti conoscono le previsioni degli scienziati sulle condizioni future del nostro pianeta, eppure, ciò nonostante, a un committente che chiede una torre, o una modesta casa in campagna, non si propone una capanna senza essere liquidati in pochi secondi.
Insomma, l’edificazione va regolamentata alla luce delle esigenze dell’ambiente. Solo in questo modo sarà possibile progettare secondo nuovi schemi cui tutti, architetti, committenti e fruitori, dovranno adeguarsi. Siamo quindi nel dominio della politica, che, in democrazia, rappresenta la volontà della maggioranza: è questo il campo in cui si può pianificare, attraverso le leggi, aree “protette”, lasciate al non-umano, bandire alcune tipologie architettoniche, proibire materiali e tecnologie, incentivarne altre, ridurre il costruito o sostituirlo con villaggi di capanne. Questa, semplicemente, non è giurisdizione dell’architetto.
L’architettura esiste solo quando c’è trasformazione di un ambiente, ed è nel modo in cui ciò accade, cioè nel come l’ambiente viene trasformato.
L’architettura esiste solo quando c’è trasformazione di un ambiente, ed è nel modo in cui ciò accade, cioè nel come l’ambiente viene trasformato, che l’architetto può intervenire, scegliendo che il suo manufatto sia di pietra, terra o cemento, che ospiti alberi e altre specie (a patto che, con le leggi attuali, la committenza accetti di perdere spazio) e da quali geometrie sia modellato. Perché l’architettura è sublime inutilità, è spazio, cioè linee, superfici, volumi: nient’altro.
Ciò non significa che gli architetti debbano restare a guardare mentre si distrugge la Terra. L’arte, nel suo piccolo, influenza il mondo toccandone la coscienza (Argan), e anche l’architettura, mera istanza di forma, in questo perimetro d’azione ha un potere e una responsabilità: quella di esprimere l’identità dell’uomo, i suoi desideri, i suoi intenti più profondi. E, se da un lato esprime tutto questo, dall’altro può ispirare un’idea, può dar corpo a un sogno. Nel nostro tempo, l’Antropocene, l’architettura può – deve – persino inventare e rappresentare uno scenario diverso, di coesistenza e simbiosi con la biosfera, suggerendo una strada nuova che, però, starà al mondo (e alla politica) ignorare o intraprendere.