Alan Rapp: Come è nato il progetto Burke + Norfolk? Come hai conosciuto l'opera di John Burke?
Simon Norfolk: Mi trovavo al National Media Museum di Bradford, in Gran Bretagna, dove c'è uno stupendo fondo di fotografie di Burke. Le stampe non sono state ancora digitalizzate, ma uno dei conservatori, che conosceva il mio lavoro in Afghanistan, mi ha preso da parte e mi ha detto: "Guarda un po' qui". In tutto i mondo ci sono solo tredici o quattordici copie dell'album di Burke sull'Afghanistan. Non sono solo delle foto davvero splendide appartenenti a un'intera gamma di generi, sono un contributo alla critica storica. Ho pensato per anni di tornare in Afghanistan, ma non ero sicuro di come farlo, benché capissi bene che non era questione solo di rifotografare il mio lavoro precedente. Sarebbe stata una finta idea di progresso. Perciò appena ho visto quel lavoro ho capito che valeva la pena di parlarne. Credo che sia il miglior fotografo di guerra mai visto. Mi avrebbe permesso ci parlare non solo del 2011 a fronte del 2001, ma anche a fronte del 1878 e della storia dell'imperialismo. Quindi di parlare dell'iterazione di questi grandi cicli storici. La frase di Marx su come la storia si ripete prima in forma di tragedia, poi in forma di farsa… Continua a essere così, come in un gioco perverso. E non sappiamo come smettere: che cosa potrebbe esserci di più farsesco?
Era un fotografo della società: riprendeva riunioni al circolo del cricket, parate e cose simili dietro le quinte dell'Impero britannico, a Peshawar. Quando, nel 1878, scoppiò la Seconda guerra anglo-afghana chiese l'incarico di fotografo di guerra ufficiale, ma non lo ottenne. Però, essendo in buoni rapporti con i militari, ci andò lo stesso, con la loro protezione. E dato che non aveva un incarico ufficiale era libero di fotografare qualunque cosa. Attività militari, certo, ma anche archeologia, tipi antropologici, siti storici: non c'era praticamente nulla di cui non si occupasse. Il che era inconsueto perché i fotografi di guerra dell'epoca avevano una prospettiva molto ristretta. Ma la cosa importante è che si trattava delle prime fotografie mai scattate in Afghanistan. Non solo incredibilmente ricche in sé, ma un documento compiuto di una congiuntura imperiale. E di aspetto completamente diverso dai documenti dell'Impero che si sono visti poi, nel Pacifico meridionale, in Nuova Zelanda, in Indonesia: tutte situazioni ambientate sulle spiagge, dove entrambe le parti si sentivano al sicuro. Burke era libero di fotografare qualunque cosa. E mentre ci si aspetterebbe che un suddito britannico come Burke rappresentasse gli afghani con antipatia (nella Prima guerra anglo-afghana avevano fatto letteralmente a pezzi l'esercito inglese, sugli stessi passi dove è scomparso Bin Laden) Burke si pone di fronte a questa gente con una specie di generoso umanesimo, decisamente inconsueto a quei tempi. Le immagini che vengono dall'Africa occidentale in quegli anni sono molto crude. Ma Burke guarda a una cultura che è sullo stesso piano dell'Impero britannico. Credo comunque che fossero la nazionalità irlandese di Burke e la sua attività commerciale a conferirgli questa obiettività e questa empatia. Gli inglesi non lo apprezzavano granché.
Andiamoci piano con la parola 'rifotografia': è una cosa molto particolare. Mark Klett è stato il primo a praticarla nel senso contemporaneo, usando gli stessi obiettivi, le stesse prospettive, talvolta gli stessi apparecchi del progetto originale, ottenendo inquadrature di grande valore comparativo. Per cui no, non si tratta di rifotografia in senso stretto, ma nel senso di chiedere a me stesso "Che cosa avrebbe fotografato Burke?" Non i luoghi comuni dei combattimenti, ma vedute delle città, della nuova popolazione. Burke a Kabul immortalò dei tipi etnici: mullah, proprietari terrieri con i loro contadini, la famiglia reale e la sua corte. Ho cercato di fare qualcosa del genere. E quindi volevo documentare la città dell'Afghanistan di oggi, l'ambiente vissuto. Spazi reali. La popolazione di Kabul nel 2001 era di 500.000 abitanti, oggi è di quattro milioni e mezzo sulla stessa superficie. Ma c'è un'altra città, la megalopoli istantanea dei militari americani, dove si può mangiare la pizza in una catena di ristoranti popolari, ma dove, per tre chilometri tutto attorno al filo spinato, ci vuole un'autoblindo che faccia la ronda. Entrambe le città sono isole, innaturali e grottesche isole di sicurezza, di benessere e di atteggiamenti occidentali.
Kabul è una città pericolosa, ma è anche un posto dove quattro milioni e mezzo di persone si alzano, danno da mangiare ai bambini, vivono e ridono: io cerco di vedere la città come la vedono loro
La mia fotografia è una specie di 'non-fotografia di guerra', no? Credo che la prima cosa sia stabilire dove ci si mette come fotografo. Se ci si mette in un avamposto con dei soldati diciannovenni che cosa si vede? Si vede quello che vedono loro, e si è destinati a sviluppare dei pregiudizi. È il motivo per cui i militari apprezzano il sistema dei giornalisti aggregati alle truppe. Ti portano fuori in posti interessanti, tu riferisci quel che dicono, e alla fine non devi far altro che metterti in lista per il premio mondiale di giornalismo. Sono maledettamente pigri. Oppure si può far da soli e andare in giro in una città come Kabul a fotografare le strade. Vedere quel che vedono gli afghani, il loro punto di vista. È più difficile, più costoso e in teoria anche più pericoloso. Kabul è una città pericolosa, ma è anche un posto dove quattro milioni e mezzo di persone si alzano, danno da mangiare ai bambini, vivono e ridono: io cerco di vedere la città come la vedono loro. Non pretendo di rappresentare il loro punto di vista. Chi ha detto "Non so chi ha inventato il concetto di acqua, ma comunque non era un pesce?" Voglio dire che se si guarda il mondo da una feritoia tra i sacchetti di sabbia, tutto quel che si vede è una situazione militare, e una soluzione militare. Il problema vero del sistema dell'aggregazione ai reparti militari è che si parla solo con i soldati e quindi si assume il loro punto di vista.
Uno dei problemi è la tecnologia della guerra. L'aspetto più avanzato di come si combatte una guerra oggi è difficile da fotografare. Il combattimento non è fatto di uomini che sparano con il fucile. La morte vera è un F14 che sgancia una bomba a tre chilometri da qualunque posto dove si possa trovare un riparo. O un drone, il cui pilota se ne sta nel Nevada, che lancia missili su paesi con cui non siamo in guerra! Come fai a fotografare cose del genere? L'azione di guerra più significativa l'anno scorso è stata la diffusione in Iran del virus informatico di spionaggio industriale Stuxnet. Come fai a fotografare un virus in azione? Il secondo problema è che il combattimento non coincide con il luogo in cui si fa la guerra. Mi interessa l'economia. La massiccia iniezione di denaro che fa di Kabul una bizzarra e perversa città mutante. Fare di Kabul il simbolo di un Afghanistan efficiente è come pensare che se sbatti le ali abbastanza forte riesci ad alzarti da terra. Kabul sta in piedi solo grazie a massicce iniezioni di soldi, perché un'economia reale non esiste. Il denaro scorre dalla cima della catena, dove gli Stati Uniti costruiscono basi segrete e centri di tortura, e dal basso: rubato agli americani, usato per costruire palazzi per i figli dei signori della guerra e dei ministri corrotti che se ne vanno in giro per la città sui loro Hummer. Dall'aeroporto di Kabul se ne vanno ogni giorno cinque milioni di dollari in contanti. Pensaci un po': in gran parte sono narcodollari. Narcotecture, "architettura del narcotraffico", è una parola colombiana che oggi si applica a Kabul. Sono le zone dei narcotrafficanti signori della guerra, interi quartieri cittadini dove oggi sorgono i palazzi del papavero. È molto più interessante dei ragazzi che sparacchiano nel sud del paese. Queste città istantanee, queste megabasi militari paracadutate da un aeroplano, queste sono le nuove città afghane. Fognature, ufficio postale, commissariato di polizia usciti fuori da un C130 in unità modulari, senza riguardi per la geografia, per il territorio, per la storia: in mezzo al nulla. Camp Leatherneck sta in mezzo al nulla precisamente perché così nessuno gli spara contro! Perciò mi interessano questa bizzarre città bastarde. Quando gli Stati Uniti se ne andranno la sicurezza collasserà, le Ong se ne andranno, ed entrambi questi tipi di città cadranno non appena cesserà la massiccia iniezione di contante.