“Dove stiamo dunque andando?”. Domanda l’Enrico di Ofterdingen ai viandanti: “Sempre verso casa” è la loro risposta. Il vettore della nostalgia originaria è sempre puntato all’abitare, come l’ago della bussola che fatalmente torna a indicare il nord magnetico. E questo perché “abitare” è essenzialmente essere posti nella pace, vuol dire: “rimanere nella protezione entro ciò che ci è parente (Frye) e ci libera dal male...e ha cura di ogni cosa nella sua essenza”.
Nella sua meditazione Costruire abitare pensare, Martin Heidegger arriva a rovesciare segno e direttrice alla sequenza gerarchica costruire-abitare inveratasi nell’epoca tecnica. “Solo se abbiamo la capacità di abitare – ed ecco il rovesciamento – possiamo costruire”. Sono parole che interrogano chi le ascolti soprattutto a fronte dell’esplodere, in questi ultimi turbolenti anni, delle periferie urbane dove la contesa sociale, ormai virale, ha proprio come posta in gioco il rimanere nella protezione, la ricerca di “ciò che è parente” e “libera dal male”.
Il vettore della nostalgia originaria è sempre puntato all’abitare, come l’ago della bussola che fatalmente torna a indicare il nord magnetico. E questo perché “abitare” è essenzialmente essere posti nella pace
Che sia la preservazione della memoria dei luoghi o la possibilità di abitarli come casa, di addomesticarli o di converso di sottrarli al loro deanimarsi e contraffarsi in non luoghi ciò che si sente a rischio è il proprio dimorare. La perdita del senso dell’abitare nei centri come nelle periferie, è l’innesco più potente per l’esplodere della caotizzazione politica e sociale: la città cessa d’essere un luogo di identificazione per diventare lo spazio dove “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” (Karl Marx) e il cui esito finale rischia d’essere la guerra permanente di tutti contro tutti, il conflitto come unico consistere. Non si tratta solo dell’uscita delle periferie dalla sfera del controllo o di una smarrita, ormai da decenni, visione urbanistica, concetto che ha sostituito l’originario sguardo liturgico con cui si faceva la città.
Si tratta più in profondità di un collasso ontologico, dell’oscurarsi del pensiero in grado di cogliere l’essenza delle cose. Abitare – ricorda infatti Heidegger – è il soggiornare dei mortali sulla terra: “Ma sulla terra – chiarisce il filosofo tedesco – significa già ‘sotto il cielo’. E questo a sua volta significa sia ‘rimanere davanti ai divini’ (die Göttlichen) sia una appartenenza alla comunità degli uomini”. C’è dunque un’unità originaria entro la quale i Quattro: terra e cielo, i divini e i mortali, sono una cosa sola. I mortali sono dunque nella Quadratura in quanto abitano. E se il tratto fondamentale dell’abitare è aver cura si tratta di una quadruplice cura che comprende il Salvare la terra, accogliere il cielo, attendere i divini, condurre i mortali. Si tratta di un soggiornare presso le cose, lasciandole nella loro essenza. Abitare è con ciò aver cura del proprio spazio, essere in rapporto con lo spazio, colmare lo iato artificiale tra il progetto, il costruire e infine l’abitare. “Per quanto dura e penosa, per quanto grave e pericolosa sia la scarsità di abitazioni – scrive Heidegger – l’autentica crisi dell’abitare non consiste nella mancanza di abitazioni. La vera crisi degli alloggi è più vecchia delle guerre mondiali e delle loro distruzioni, più vecchia anche dell’aumento della popolazione terrestre e della condizione dell’operaio dell’industria. La vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre in cerca dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare”.
Abitare è con ciò aver cura del proprio spazio, essere in rapporto con lo spazio, colmare lo iato artificiale tra il progetto, il costruire e infine l’abitare
Da questa prospettiva il costruire-edificare diviene come il coltivare in agricoltura, il prendersi cura della terra e della natura nella misura in cui la si trasforma senza perciò pretese di soggiogamento. Ciò che suscita lo smarrimento e al tempo medesimo la nostalgia di cui si diceva all’inizio è proprio la perdita del Luogo inteso come punto spaziale qualitativo e di converso l’espandersi dell’informe, dell’uniforme, del non luogo, la “città continua” di Calvino, dove esistono spazi e flussi ma non più luoghi. Passaggi che si compiono nell’orizzonte del nichilismo e che perciò implicano – pur nel dispiegarsi del più eccitato vitalismo – l’anestesia radicale dell’Essere. Poiché “il modo in cui tu sei e io sono, la maniera secondo la quale noi siamo uomini sulla terra è l’abitare”.
Di questo parla oggi il nostro disagio, che poi è il sintomo e la voce della nostra nostalgia. La quale tuttavia non potrà trovare sollievo in contesti passati o utopie regressive ma in un possibile presente altro, in un pensiero capace di sguardo, di ascolto, di cura.
Riccardo Paradisi, 47 anni, filosofo e saggista, si occupa di comunicazione politica e aziendale. Ha diretto con Geminello Alvi La confederazione italiana e scritto per il Sole 24 ore e Panorama. Autore per i programmi culturali di Radio Rai, il suo ultimo saggio è Un’estate invincibile (Bietti edizioni), una ricognizione sulla giovinezza nella società degli eterni adolescenti.