Un messaggio, quello più banale e frequente – quasi tutte le mattine tra le 8.00 e le 8.20 – “Arrivi per il caffè?” è per me anche quello più doloroso da rileggere oggi, testimone di una quotidianità fatta di redazione vuota, luci ancora spente e la tua presenza che si annunciava con il fischiettare prima, il profumo poi.
Caffè, sigaretta e confidenze: le mie di ragazzina spaventata alle prese con i primi problemi nel mondo del lavoro, con la ricerca di una casa, le questioni stupide con i fidanzati che all’epoca sembravano drammi di portata nazionale; le tue di padre apprensivo con una figlia poco più piccola di me che si affacciava all’età adulta, di uomo pratico alle prese con una casa tutta da costruire e di sognatore che si immedesimava in un film o si innamorava di un documentario.
Con quel caffè della mattina abbiamo imparato a conoscerci, a costruire un’amicizia speciale.
Da allora ho cambiato colleghi e posti di lavoro, ma quell’appuntamento non l’ho mai più avuto con nessuno. Rimarrà il mio ricordo, banale, di una persona speciale. Ciao Franco. Carlotta Marelli
Sapevo che alla fine ci avresti fatto lo scherzone. Tu non sei uno da andartene come gli altri, ma da divo. Chapeau. Così ora mi tocca scrivere con distacco e serietà, ma come faccio? Insieme scherzavamo su qualsiasi cosa, e se ti penso qui davanti mi vien da ridere, mi prenderesti in giro. Mi diresti “Mariannina, ma la smetti di scrivere minchiate?”. Perfino al tuo funerale ti sentivo vicino a fare battute sul sermone e a pavoneggiarti sul tuo loculo: devo ammettere che ti sei preso un bel posto, l’angolo in basso a destra di una griglia perfetta, da bravo grafico. Negli ultimi quattro anni con te ho passato più tempo che con qualsiasi fidanzato, amico, parente, genitore. E non ore da colleghi, ma da amici, veri amici, dentro e fuori le mura dell’ufficio. La regola era semplice e ci piaceva: parliamo di tutto tranne che di lavoro. Io di calcio, tu di basket. Tu di regolamenti internazionali per arbitrare, io di progetti impossibili in Messico. Ci ascoltavamo. Ci psicanalizzavamo. Ci consolavamo. Ci dicevamo la verità, facendoci male ma bene. Mi hai supportato con il canto, e io con il sax. Ti ho insegnato a mangiare le barbabietole e tu mi hai insegnato a sbucciare la frutta con coltello e forchetta. Avevi sempre un’ossessione nuova: la sega circolare, la giacca Armani, il programma di doppiaggio del film coreano, il “metodo Miragliotta” per solfeggiare. Quante battute, quante battutacce! Non ci risparmiavamo. Sei stato migliore amico e migliore amica. A presto, e non ti dimenticare di noi, di me, che quando meno te lo aspetti sarò lì a scroccarti una sigaretta. Marianna Guernieri
Estratto da una guida al solfeggio ideata da Franco: il "metodo Miragliotta", 2020.
C'era sempre spazio per un vassoio in più al tuo tavolo a pranzo, dove ho imparato ad apprezzare il tuo tagliente senso dell'umorismo e l'amore per il sassofono, grazie alle traduzioni dei colleghi pazienti. Eri ironico – ricordo le parole non proprio di incoraggiamento su un risotto decisamente inautentico che avevo preparato – e irriverente, a giudicare dalle battute che a volte non mi venivano tradotte.
Il tuo umorismo si estendeva al tuo impegno ad ampliare il mio vocabolario italiano oltre i confini della rudimentale terminologia architettonica, per includere la corretta pronuncia di parole importanti come “ornitorinco” e la “chiavetta” con cui ci offrivi regolarmente il caffè.
Questi aneddoti si riferiscono a piccoli ma apprezzatissimi gesti, piccoli germogli in confronto alle profonde radici di amicizia che hai coltivato in Domus. Quindi so quanto sarà acuta si sentirà la tua assenza nella redazione della rivista, e sulle sue pagine.
Abracci,
Jessica x
Jessica Mairs
Le nostre giornate in Domus erano un incontro continuo, tra caffé offerti, suggerimenti musicali e un affetto incondizionato.
E ora siamo qui a ripensare al tuo fischietto per imprimerlo nei nostri ricordi. Grazie. I ragazzi dell'archivio, Elena Claudia Oscar
Annalisa Rosso
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- 16 luglio 2020