Il design del volto nell’era dell’immagine computazionale e dei botox bar

Il volto non è più solo luogo dell’identità, ma interfaccia progettata: tra filtri, chirurgia “AI-inspired”, estetica parametrica e body modification, la cultura contemporanea riformula radicalmente il rapporto tra immagine, tecnologia e soggettività.

Nel XXI secolo il volto ha cessato di essere un semplice dato biologico per trasformarsi in un’interfaccia progettata. Dai filtri di bellezza agli interventi guidati da algoritmi, dai software di riconoscimento facciale alle chirurgie “AI-inspired” diffuse in Asia, il design della faccia ridisegna oggi i confini tra corpo, identità e progetto. La mostra “Face Value” del MoMA (2026) ricostruirà la genealogia analogica di questa manipolazione, mostrando come già i ritratti promozionali degli studi cinematografici fossero sottoposti a editing radicali: silhouette, mascherature, collage e pitture correggevano l’immagine di attori, sportivi, socialite e politici. Il visual designer e saggista Riccardo Falcinelli vede il volto da sempre come una “nostra invenzione”: molto prima dell’era digitale, l’immagine pubblica era già un artefatto progettato, un veicolo di stereotipi di genere e di convenzioni estetiche codificate. 

Il volto come interfaccia

Il concetto di “progetto” si estende così al corpo stesso, e soprattutto al volto, diventato spazio privilegiato di intervento e controllo, addentrandosi in una condizione quasi transumana. 

Ritratto dell’artista e performer francese Orlan, fotografata da Fabrice Lévêque nel 1997. Courtesy Wikimedia Commons

Parallelamente, l’arte ha prefigurato e teorizzato la trasformazione del volto in manufatto. Orlan, pioniera della body art chirurgica, ha convertito la sala operatoria in atelier, trasformando la chirurgia estetica in un linguaggio concettuale. L’artista americana Cindy Sherman ha portato la sua ricerca direttamente dentro Instagram: assottiglia occhi, allunga nasi, gonfia labbra attraverso Face Tune, YouCam Makeup, FaceApp, esasperando la distanza tra immagine e referente. Il selfie diventa un atto compositivo, un campo di metamorfosi che riflette l’estetica dei social e la cultura dell’autoritratto filtrato. Dal 2017, così, il corpo dell’artista statunitense diventa il luogo privilegiato, reale e virtuale, attraverso cui ostentare l’uso dell’editing per plasmare trucchi, mascheramenti e trasformazioni.

Anche la mostra “Bodydrift – Anatomies of the Future” (Design Museum Den Bosch, 2020) ha interrogato la fusione tra uomo e macchina, ponendo l’attenzione sulla progettazione del sé. Nel suo “Biometric Mirror”, Lucy McRae invita lo spettatore a guardarsi allo specchio: ciò che appare non è un riflesso, ma un volto idealizzato generato dagli algoritmi. Una simulazione di sé che prefigura l’avvento di un’estetica computazionale già teorizzata da Lev Manovich: un “media design” in cui algoritmi, machine learning e riconoscimento facciale automatizzano la trasformazione dell’identità. Il volto, tradizionalmente simbolo della soggettività, diventa così anche un oggetto manipolabile, un nodo di dati, un’interfaccia che fonde umano e tecnologico.

The Reincarnation of Saint ORLAN, by ORLAN, 1990-93. Courtesy l'artista

Il progetto collettivo del volto

Questa trasformazione assume una radicalità particolare in Cina e Corea del Sud, dove la chirurgia estetica opera secondo logiche quasi industriali. Qui il volto è trattato come progetto collettivo: il canone estetico non è ideale individuale ma dispositivo sociale, investimento professionale e competitivo. Nel suo reportage “About Face” per il New Yorker, Patricia Marx descrive una Seoul in cui l’immagine è prerequisito lavorativo più che vezzo narcisistico. Le culture collettiviste spiegano il desiderio di “somigliarsi”, tanto nella similitas quanto nella simultas di cui parla il filosofo Giorgio Agamben non solo assomigliare agli altri, ma coincidere con un modello condiviso, aderire a un volto collettivo più che a un’identità individuale. 

Kim Kardashian in American Horror Story: Delicate (Stagione 12)

A questa dinamica si affianca ciò che la scrittrice Jia Tolentino ha definito, sempre sul New Yorker, “The Age of Instagram Face” (2019): un volto di tendenza composto da un inquietante mix di tratti etnici e stereotipi estetici digitali, un “unico look cibernetico” generato dall’intreccio tra filtri, FaceTune e chirurgia, che appiattisce le differenze e trasforma gli iniettabili in una scelta facile quanto cambiare taglio di capelli. Intanto le frontiere della K-Beauty, dal Pdrn, polimero di frammenti di Dna ricavato principalmente dal salmone, con effetto antinvecchiamento, all’estratto dalle foglie della Houttuynia cordata, (antinfiammatorio e antiossidante), mostrano come la ricerca di armonia migri dalle proporzioni rinascimentali ai parametri biometrici e molecolari.

Tra video post-operatori, epidermidi levigate e estetiche uniformate, il rischio è quello di un’alienazione crescente dal proprio volto.

In Occidente, al contrario, ogni segno del tempo viene percepito come colpa individuale. L’Ar e i filtri Instagram contribuiscono a confondere la relazione tra immagine e realtà: si entra dal chirurgo con la foto di una celebrity dicendo“ fammi così”, come se il volto fosse un oggetto scalabile. Tra video post-operatori, epidermidi levigate e estetiche uniformate, il rischio è quello di un’alienazione crescente dal proprio volto, l’allontanamento da ciò che realmente siamo a ciò che sembriamo, distanza che può essere, e vuole essere ridotta, solo grazie a mirati interventi, e quindi grazie a un design facciale perfettamente studiato.

Coralie Fargeat, The Substance, 2024

Il rischio, altrimenti, è quello di ritrovarci davanti allo specchio come Demi Moore in The Substance e non trovare più aderenza con la nostra immagine social tanto da volerne deturpare quella reale. 

Young, old, or surgical

Il botox è forse il simbolo più evidente di questa normalizzazione. Nato nel 1989 come trattamento medico per lo strabismo, approvato solo nel 2002 a fini cosmetici, il prodotto è stato presentato fin dall’inizio come naturale ed essenziale: “Look like you with fewer lines”, recitava la prima campagna. Eppure poco c’è di naturale in un volto semi-bloccato per impedirne l’invecchiamento.

Robert Zemeckis, La morte ti fa bella, 1992

Le celebrities, dalle Kardashian in giù, lo hanno reso routine, integrandolo nella cultura beauty come gesto inevitabile e aspirazionale, quasi un’estensione dell’igiene personale. Tra botox bar affacciati sulle strade, neon ammiccanti e trattamenti walk-in, l’estetica iniettabile è completamente de-stigmatizzata. In questo scenario, Byung-Chul Han legge l’autoesposizione digitale come parte della “psicopolitica” neoliberale: l’individuo, nel tentativo di essere "imprenditore di sé", si sfrutta volontariamente e con entusiasmo, trasformando il sé in un'opera d'arte da esporre e ottimizzare per il sistema, diventando attraverso lo smartphone un “info-cosa”, auto-sorvegliato e auto-sfruttato nella continua ottimizzazione del sé.

Il volto, tradizionalmente simbolo della soggettività, è diventato un oggetto manipolabile, un nodo di dati, un’interfaccia che fonde umano e tecnologico.

Film come Sick of Myself hanno portato il discorso su un ulteriore piano, estremo e quasi opposto, ma dettato dalla stessa ossessione di partenza per l'attenzione e i social media, dove la protagonista Signe gelosa della fama del suo ragazzo artista, inizia a generare un ciclo di body horror e auto-distruzione per ottenere visibilità, giocando sull'idea di "farsi male" per diventare famosi.

Kristoffer Borgli, Sick of Myself, 2022

Anche la mia esperienza personale (la paura nel pensare che quando le mie sopracciglia torneranno ad avere mobilità, potranno formarsi linee d’espressione sulla mia fronte) testimonia quanto questa normalità sia interiorizzata, quanto la medicina estetica generi dipendenza più di qualsiasi benzodiazepine in commercio, quanto la mostruosa “mutazione antropologica” immaginata da Pasolini abbia superato le sue previsioni più cupe. D’altronde non ci sono molte scelte, come ha affermato Fran Lebowitz nell’ultima intervista a Fallon Tonight: “There’s three ways to look. Young, old, or surgical”.

Forse ci resta solo l’opposizione pura, o almeno la consapevolezza che il volto è oggi un territorio di progettazione in continua riscrittura: biologica, digitale, culturale.

Immagine di apertura: Cindy Sherman, Untitled #649, 2023. Courtesy l'artista e Hauser&Wirth