Il desiderio era slegato dalla velocità.
La velocità appartiene al bisogno, il desiderio vuole durare, non finire. Trova la sua forma nel tempo, nell’attesa, nella possibilità.
Ma oggi non è più così. Oggi i desideri sono vittime del mercato. Le persone entrano, riempiono i carrelli fino al limite concesso per ogni acquisto, che può essere anche 8-10 pezzi e poi escono. Gli scaffali restano vuoti. Qualcuno ha già calcolato il margine di profitto prima ancora di arrivare al negozio. La maggior parte non fa neppure la fatica di andare in negozio. C’è sempre uno shop online.
Cos’è lo scalping: dalle sneakers a Ikea, il design su Vinted costa cifre folli
Trasformando una lampada Gustaf Westman, lo sgabello di Etro della Design Week o una Nike Dunk in beni da collezione, lo scalping è il fenomeno che rende esclusivo il design accessibile.
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- Lucia Antista
- 16 ottobre 2025
Lo chiamano scalping. Prima era una parola riservata ai biglietti dei concerti, alle partite di calcio. Adesso si applica a un vaso di ceramica rosa, a uno sgabello, a un foulard allegato a una rivista.
Sul web i pezzi riappaiono quasi immediatamente. Una lampada che costava quarantanove euro ne vale centocinquanta. Un vaso, ottanta invece di venticinque. Il prezzo è arbitrario come sempre lo è stato, ma adesso lo è in modo diverso. Non è il valore dell'oggetto a cambiare, è il tempo che intercorre tra il volere e l'avere. Quel tempo si è compresso fino a diventare puro nervosismo commerciale.
Lo chiamano scalping. Prima era una parola riservata ai biglietti dei concerti, alle partite di calcio. Adesso si applica a un vaso di ceramica rosa, a uno sgabello, a un foulard allegato a una rivista. Il termine viene dal verbo inglese to scalp, fare lo scalpo, strappare via. C'è qualcosa di violento nell'etimologia che stride con gli oggetti coinvolti ma non con l’azione in sé, sottrarre agli altri per guadagnarci.
Come nel caso della collezione di Gustaf Westman x IKEA, la lampada rosa da 7 euro passa a 70. Nuovo con cartellino recita la didascalia su Vinted. E così per ogni altro pezzo, persino quelli ancora non esauriti perché tanto presto o tardi lo saranno.
La logica è semplice: se è gratis e molti lo vogliono, qualcuno è disposto a pagare. Se è un’edizione limitata, vale di più. Se sparisce in fretta, significa che ne valeva la pena. Il mercato secondario non è un'anomalia, è la conseguenza naturale di un sistema che ha imparato a nutrirsi di scarsità e desideri. Non importa se la scarsità e il desiderio sono reali o indotti. Importa che funzioni.
Durante il Salone del Mobile, a Milano, fila dopo fila, che ogni anno sembra più lunga, oggetti che tecnicamente non costano nulla, che vengono regalati, diventano un oggetto di culto. Lo sgabello di Etro, per esempio. Distribuito durante la settimana del design, riapparso online a prezzi vertiginosi. Ma anche shopper, poster. Qualunque cosa sia va bene, pur che gli altri non possano comprarla se non a prezzo triplicato
Le riviste femminili hanno scoperto questo meccanismo da tempo. Allegano foulard, shopper, rossetti, pochette firmate. Il numero esce in edicola il martedì, il giovedì è già introvabile. Nel weekend qualcuno lo rivende online al doppio del prezzo. Non è la rivista che interessa, il più delle volte, c’è solo l'oggetto (del desiderio).
Le sneakers sono state il laboratorio dove lo scalping ha mosso i primi passi. I modelli in edizione limitata, le collaborazioni tra brand sportivi e stilisti, i drop improvvisi annunciati sui social. Le code davanti ai negozi alle sei del mattino. I bot che comprano interi stock online in secondi. Le Air Jordan, le Adidas Yeezy, le Nike Dunk. Oggetti che costano centocinquanta euro al lancio e ne valgono cinquecento il giorno dopo. Il mercato di rivendita delle sneakers vale miliardi. Non è più sottocultura, è industria parallela.
C'è un paradosso in tutto questo. Gli oggetti vittima di scalping sono quasi sempre prodotti pensati per essere democratici. Ma nel momento in cui diventano desiderabili oltre una certa soglia, smettono di essere accessibili.
Tre mondi apparentemente separati. Il design, l'editoria, lo streetwear. Ma è lo stesso sistema che si ripete con piccole variazioni. Oggetti diversi, stesso rituale. Annuncio, attesa, corsa, esaurimento, rivendita. Il ciclo si chiude sempre nello stesso modo: qualcuno ha quello che tutti vogliono, qualcun altro paga per averlo, tutti gli altri restano fuori. C'è un paradosso in tutto questo. Gli oggetti vittima di scalping sono quasi sempre prodotti pensati per essere democratici. Ikea esiste per rendere il design accessibile. I gadget delle riviste servono a fidelizzare un pubblico. Le sneakers nascono come calzature sportive funzionali. Ma nel momento in cui diventano desiderabili oltre una certa soglia, smettono di essere accessibili. La scarsità li trasforma in status symbol involontari. Il mercato secondario li riposiziona in una fascia di prezzo che nega la loro ragion d'essere originaria.
Il capitalismo è sempre stato bravo a creare nuovi bisogni. Adesso è diventato bravissimo a creare nuove urgenze. Non basta più volere qualcosa. Bisogna volerla subito, prima che sparisca, prima che qualcun altro la prenda. Il tempo della riflessione si è annullato. O compri adesso o resti fuori. È una forma di pressione che non ha bisogno di essere esplicitata. È incorporata nella struttura stessa dell'offerta.
I social amplificano tutto. Vedere qualcuno che ha ottenuto l'oggetto desiderato genera una voglia misurabile in like e commenti. Si comincia prima con le adv delle influencer che li hanno in anteprima. I post, le storie, gli unboxing. Il possesso diventa performance. Non possiedi solo l'oggetto, possiedi il diritto di mostrarlo.
Gli scaffali vuoti, le edicole svuotate, le pagine web sold out. Sono immagini di un presente dove l'ordinario diventa esclusivo non perché sia cambiato, ma perché è diventato improvvisamente difficile da avere. E dove il difficile da avere diventa automaticamente desiderabile, anche se cinque minuti prima non sapevi nemmeno che esistesse.
Immagine di apertura: © Inter IKEA Systems B.V. 2025.