I millennial non abitano più case, ma feed di Instagram

La casa diventa scenografia di sé stessi: in un’epoca in cui tutto è rappresentazione, si cura ogni dettaglio anche in spazi provvisori, mentre l’ideale abitativo si allontana per quasi tutti.

La casa non è solo un luogo dove si abita, ma un terreno in cui si costruisce la propria vita personale. Nel caso dei millennial, soprattutto, e già da tempo, non si tratta più soltanto di vivere uno spazio, quanto di mostrarlo. La casa non è più solo un luogo da abitare, ma una superficie da esporre. Probabilmente perché non abitano più solo le case ma anche i feed digitali e gli spazi sono curati anche per essere visti, condivisi e… inquadrati.

Su Instagram, TikTok e altre piattaforme, l’home decor si è trasformato in un linguaggio narrativo: non è più solo una questione di gusto o funzionalità, ma un modo di raccontare chi si è, attraverso scelte visive e simboliche. Colori, texture, materiali, composizioni diventano elementi di una sceneggiatura visiva che comunica valori, stili di vita, aspirazioni. Ogni angolo della casa è pensato come un'inquadratura, un frammento di racconto coerente da offrire allo sguardo altrui. Abitare il feed significa allora vivere la casa come se fosse un'estensione dell'identità digitale: uno spazio che deve parlare per immagini, comunicare senza parole, mostrare chi siamo – o chi vorremmo essere. È una forma di narrazione visiva continua, che plasma l’ambiente domestico in funzione del racconto che si vuole mettere in scena.


Librerie Ikea, candele antropomorfe su coffee table, tappeti boho stesi su parquet o gres porcellanato, divani modulari beige illuminati da luci calde in stile golden hour.

Ma è qui che si nasconde l’inghippo generazionale: si costruisce - nella realtà, nell’immaginario o nelle bacheche Pinterest - l’idea di una casa perfetta, minimalista ma calda, sempre ordinata, che pochi possono davvero permettersi. Quegli spazi da rivista – open space con isola cucina in microcemento, bagno in resina, terrazzo con lucine e tavolo di legno grezzo. Ed è così che il sogno di “abitare bene” viene proiettato a lungo termine, in attesa di una maggiore stabilità, ma intanto si tampona con qualche elemento, con qualche compromesso perché la casa reale spesso è un bilocale condiviso, con scrivania incastrata tra letto e armadio.

La casa millennial vive quindi sospesa tra sogno e frustrazione, tra immagine e realtà. Con quel voyeurismo generazionale, in cui il desiderio cresce proporzionalmente alla sua irraggiungibilità.

I social anestetizzano questo conflitto, trasformano la precarietà e la mancanza in minimalismo ricercato. I millennial progettano ossessivamente spazi che tardano ad arrivare riversando le manie estetiche nelle case provvisorie. È una forma di compensazione per un'impossibilità strutturale, dove la cura maniacale del temporaneo diventa l'unica forma di controllo possibile.

L'estetica che ne deriva, anche e soprattutto nelle case di proprietà, è sorprendentemente uniforme: il millennial grey domina palette e superfici, dal grigio antracite dei divani al grigio perla delle pareti. Un colore neutro, che non offende, che si adatta. Il grigio diventa così il colore di chi ha preferito il mutuo alla rivoluzione, accettando rate trentennali come prezzo per una stabilità sempre più illusoria. Un essenzialismo monocromo che si estende al sad beige, espressione resa popolare dalla comica Hayley DeRoche in una serie di video satirici su TikTok in cui prendeva in giro i cataloghi di abbigliamento per bambini dai toni smorti, degni di un “manuale di Werner Herzog per infanzie tristi”. Negli angoli, le immancabili piante d'appartamento - monstera deliciosa, ficus lyrata, sansevieria - proliferano come una giungla addomesticata. Sono diventate il simbolo di una natura controllata e controllabile, l'unico elemento vivo concesso in ambienti progettati più per essere fotografati che vissuti.

Da Pinterest

I consumatori millennial selezionano da cataloghi di interni dai margini d’azione sempre più stretti. Quei divani dai toni neutri, quelle piastrelle grigie, quelle stesse piante da interno compongono così un’estetica omologata, che rivela più il bisogno ansiogeno di appartenere che una reale espressione di gusto personale. Una generazione prestata agli openspace, ai monolocali, alle microcase, al coliving, tutte forme d’abitare differenti ma che ruotano attorno alla mancanza. Cucine in continuità con soggiorni, corridoi eliminati, separazioni abbattute: soluzioni nate per “aprire” gli ambienti e che in realtà molto spesso finiscono per comprimere la qualità dell'esistenza quotidiana.

La pandemia ha rivelato brutalmente i limiti di questa grammatica abitativa. Lo smart working ha trasformato case pensate per essere vissute poche ore al giorno in uffici permanenti. Anche i meno sensibili al tema hanno dovuto ripensare gli spazi, cercando soluzioni più funzionali, adattabili, esteticamente piacevoli.


In questa fiction abitativa quotidiana si sta ridefinendo il concetto stesso di abitare. Non più radicamento e proprietà, ma flusso e adattamento. Non più la casa dei padri, solida e definitiva, ma uno spazio liquido che esiste tanto nel digitale quanto nel fisico, pronto a essere smontato e ricomposto altrove. La casa millennial vive quindi sospesa tra sogno e frustrazione, tra immagine e realtà. Con quel voyeurismo generazionale, in cui il desiderio cresce proporzionalmente alla sua irraggiungibilità.