Onnipresenti nelle piattaforme digitali, gli algoritmi non solo determinano a quali immagini veniamo esposti, ma anche il modo in cui queste vengono prodotte e condivise, plasmando una nuova estetica. Già nel 2009, Hito Steyerl, nel suo saggio In Defense of the Poor Image, indicava come le immagini di bassa qualità, spesso virali, fossero indicative delle logiche algoritmiche che privilegiano la rapidità e la condivisione rispetto alla cura estetica.
Le immagini digitali diventano quindi “povere”, non tanto nella loro fattura, ma per il modo in cui sono concepite e consumate nell'era dell'iperconnessione, dove l'importante è il messaggio e non tanto la sua forma. Nasce così una nuova grammatica che tende a omogeneizzare l'esperienza visiva, privilegiando la velocità di diffusione rispetto alla qualità dell'immagine. Ma è davvero questo il destino della nostra cultura visiva, o esiste ancora spazio per la diversità estetica?
Il concetto di New Aesthetic proposto dall’artista e teorico James Bridle aggiunge una riflessione fondamentale. Bridle evidenzia come il machine learning e la computer vision stiano creando una nuova grammatica visiva che risulta diversa da quella tradizionale. Le immagini, trattate dagli algoritmi, non sono più solo il prodotto di un'intenzione umana, ma sono il risultato di un'interazione complessa tra l'uomo e la macchina. La percezione visiva contemporanea, quindi, è modellata da queste tecnologie, che non solo mediano i contenuti, ma li trasformano in qualcosa di inedito.
C’è chi ritiene che il rischio di una estetica ottimizzata per gli algoritmi non sia da sottovalutare: per l’artista sloveno pioniere della net art Vuk Ćosić, gli algoritmi possono anche minacciare la diversità, contribuendo alla creazione di contenuti sempre più simili tra loro. In una riflessione provocatoria, Ćosić spiega a Domus che “il ruolo degli artisti non è decorare, ma diffondere il virus della libertà”.

Metterei in discussione l'assunzione che gli algoritmi portino a una standardizzazione visiva. Le evidenze empiriche suggeriscono infatti il contrario.
Lev Manovich

Gli algoritmi, nel loro tentativo di ottimizzare l’esperienza, finiscono per imbrigliarci in una logica di consumo estetico che predilige l'efficienza alla libertà espressiva. Se da un lato gli algoritmi accelerano la scoperta di nuove estetiche e favoriscono una diversificazione delle scelte, dall'altro rischiano di creare una “bolla algoritmica” in cui le immagini si standardizzano per adattarsi alle logiche del mercato digitale. Come ci ricorda Ćosić, la vera sfida per gli artisti e per chi partecipa alla cultura visiva oggi è quella di non lasciarsi imprigionare dalle logiche di ottimizzazione, ma di continuare a sperimentare e a diffondere, attraverso il loro lavoro, il virus della libertà estetica.
“Nella pratica quotidiana, significa che nel momento in cui i media creano un consenso globale attorno a una nuova ondata di hype tecnologico, dovresti correre nella direzione opposta”, spiega l’artista. Al tempo stesso, “i modelli linguistici di grandi dimensioni (Llm) hanno divorato l’intera produzione culturale dell’umanità e ora stiamo letteralmente bollendo i laghi per ottenere questi testi e immagini sterilizzati, chiamati Ai slop (“poltiglia Ai”)”.

Lo scrittore statunitense e teorico dei nuovi media Lev Manovich focalizza la sua attenzione su piattaforme come Instagram, analizzando come i social media siano diventati strumenti di aesthetic visual communication. Secondo Manovich, ciò che sta accadendo oggi è un vero e proprio fenomeno estetico: l’instagramism, una cultura estetica che si nutre di immagini formattate e ottimizzate per i social media. Tuttavia, spiega Manovich a Domus, “sebbene gli algoritmi giochino certamente un ruolo nella creazione e distribuzione dei contenuti oggi, metterei in discussione l'assunzione che essi portino necessariamente a una standardizzazione visiva. Le evidenze empiriche suggeriscono infatti il contrario”.
Manovich prosegue affermando che, in realtà, gli algoritmi non portano necessariamente a una visione unificata. “Nel corso degli ultimi decenni, abbiamo visto una chiara progressione storica: dalla predominanza della cultura di massa a metà del XX secolo, all'emergere di sottoculture distinte, all'ascesa delle ‘tribù’ culturali urbane e, più recentemente, alla proliferazione di varie estetiche”.
@vaporama_vision Divine poolside 🍹 Collaborative animation based on an original artwork by P. Carredo (Instagram) Made in Blender//Premiere pro 💻 Follow for more vaporwave 3D animations and aesthetic content 😌🌊 Song: t e l e p a t h テレパシー能力者 - 空に光 #architecture #art #vaporwave #aesthetic #aesthetics #surreal #nostalgia #poolcore #liminalspace #kenopsia #weirdcore ♬ son original - 𝑉𝐴𝑃𝑂𝑅𝐴𝑀𝐴 夢想
Le piattaforme digitali, anziché creare una bolla estetica uniforme, hanno accelerato un processo di diversificazione visiva. L'algoritmo, in effetti, permette la scoperta di nicchie visive che altrimenti potrebbero restare invisibili, portando alla luce estetiche diverse e talvolta in contrasto tra loro. “Questa evoluzione riflette un cambiamento fondamentale nella vita culturale: dal limitato ventaglio di scelte a una molteplicità di opzioni in continua espansione. Piuttosto che creare una ‘bolla standardizzata’, le piattaforme digitali e gli algoritmi hanno proseguito e accelerato questa traiettoria a lungo termine verso la diversificazione. In sintesi”, conclude Manovich, “ciò che osservo non è una convergenza algoritmica verso un'unica estetica ottimizzata, ma piuttosto un ampliamento delle scelte e delle possibilità”.

Una tendenza simile viene individuata dal collettivo Clusterduck, che sottolinea come sia ancora possibile mantenere l’originalità, nonostante nel mondo dell’art direction si parli spesso di algorithmic flattening. “Di fatto”, spiegano gli artisti, “è facile constatare che artisti e designer sono visivamente condizionati dai software che usano quotidianamente, con i loro dataset preimpostati, e da motori di ricerca e piattaforme che applicano una curatela algoritmica sui contenuti, come Pinterest o Instagram”.
Tuttavia, è giusto ricordare che “sul web permangono anche progetti che resistono a questo tipo di condizionamenti, come i canali di Are.na, curati dagli utenti. Dai preset che troviamo sui software di editing grafico, utilizzati su scala massiva, come Photoshop o Cinema4D, fino allo stile marcato di molti software di IA generativa, l’influenza dei proprietari e sviluppatori di tali sistemi sulle opere finali di artiste digitali e content creator è sempre più evidente”.
Come osserva il collettivo, “è quindi giusto chiedersi quali siano le implicazioni di questa collaborazione talvolta forzata con la macchina, e come reagire. C’è chi approccia la questione cercando di gestire al meglio una serie il più possibile variegata di tools o preset; chi preferisce difendere a tutti i costi la propria autonomia creativa, ma spesso purtroppo si trova a lottare con i mulini a vento; e c’è chi vive questa situazione con un approccio che potremmo chiamare post post umano, rinunciando alla propria autorialità e considerandosi un ingranaggio collocato all’interno di un sistema o apparato molto più grande. Un apparato capace di creare e annientare stili ed estetiche, a seconda di spostamenti di natura economica, estrattivista o stocastica, moti a cui è possibile tentare di opporsi solo creando correnti collettive e canali partecipati... tempo permettendo”.
Immagine di apertura: Clusterduck, Meme Propaganda, 2018. Courtesy Clusterduck