Alessandro Michele, il re-designer della moda

In sette anni di Gucci, Alessandro Michele ha ridisegnato il brand, stravolgendo contemporaneamente l’idea stessa che abbiamo di moda: mescolando alto e basso, lusso e controculture, digitale e reale.

Alessandro Michele, al debutto in Gucci durante la Milano Fashion Week nel gennaio 2015, si era rivelato al mondo della moda come un Cristo laico: i capelli lunghi e scuri, così come la barba lunga. Un maglione bianco, a trecce, dal taglio oversized, lo stile con cui avremmo poi imparato a conoscerlo. Le maniche lunghissime tirate sopra il gomito, come le maglie da calcio da adulto indossate dagli enfant prodige. Le mani giunte, un inchino. 

Michele un messia lo è stato per la moda dell’ultimo decennio. Non soltanto perché dopo il repentino addio di Frida Giannini, Alessandro, detto da tutti Lallo, portò a compimento il miracolo di disegnare e produrre una collezione matura e autentica nel giro di una manciata di settimane, ma soprattutto perché è stato artefice di uno spartiacque tra un vecchio e un nuovo testamento dell’industria, e non solo per la centenaria maison fiorentina. 

Il suo periodo in Gucci è infatti andato oltre il consolidamento finanziario del brand, corrispondendo con l’ascesa di un più ampio fenomeno Gucci, capace di valicare confini e classi sociali. Non è dunque forse una coincidenza che il suo percorso sia culminato con la recente capsule collection in collaborazione con il marchio di culto di streetwear e skateboarding londinese Palace.

1. Azienda Individuale Guccio Gucci, 1921 Guccio Gucci, nato a Firenze nel 1881 da una famiglia di artigiani toscani, si appassiona alla moda quando da giovanissimo si trasferisce insieme alla famiglia a Londra per lavorare come ascensorista in un famoso hotel della capitale britannica, ammirando lo sfarzo della nobiltà inglese. Fu la nostalgia a spingerlo a tornare definitivamente in Toscana, dove inizia a vendere articoli di valigeria e pelletteria e nel 1921 fonda a Firenze l’Azienda Individuale Guccio Gucci.

1. Azienda Individuale Guccio Gucci, 1921 Si tratta di una piccola bottega dove vende valigie in pelle importate, espandendosi gradualmente anche ad articoli da viaggio e sellerie per l’equitazione, realizzati da artigiani locali. Gli accessori di pelletteria della casa faranno sempre riferimento all’ambito equestre: il morsetto e la staffa prima, un nastro verde-rosso-verde ispirato dal sotto-pancia della sella poi.

2. Gucci City, 1955 Nonostante la morte di Guccio Gucci nel ‘53, l’azienda fiorentina vene una crescita esponenziale delle vendite. Viene aperto un primo negozio fuori dai confini italiani a New York, , alla quale ne seguiranno diverse tanto che un’area della Grande Mela è conosciuta come Gucci City. L’ormai affermata Maison vestirà da quel momento le più famose star del cinema e della politica a stelle e strisce, tra queste ricordiamo la bellissima Liz Taylor e Jackie Kennedy.

2. Gucci City, 1955 Ed è proprio da quest’ultima che prende il nome Jackie O, una delle più iconiche borse del marchio, presentata per la prima volta nel 1961, con la sua forma curva e la sua chiusura in metallo color oro.

3. Flora, 1966 A fronte di questo successo ormai globale, nel 1966 Principe Ranieri di Monaco e sua moglie Grace Kelly entrano nella Boutique di Gucci in via Montenapoleone a Milano, dove vengono accolti da Rodolfo Gucci, il quale decise di commissionare un disegno all’illustratore, pittore e scenografo Vittorio Accornero de Testa, per un foulard di seta.

3. Flora, 1966 Nasce qui Flora, l’iconico foulard di seta il cui motivo floreale ha ispirato e continua a ispirare oggetti e collezioni Gucci ancora oggi.

4. Autunno/Inverno, 1995 Per risollevare le sorti del marchio, viene assunto come vice-presidente Dawn Mello, con il compito di portare novità e creatività al marchio. Nel 1994, Tom Ford, un giovane designer texano, viene scelto, invece, come nuovo direttore creativo della maison. Il punto di svolta fondamentale è stata la collezione a/i 1995, caratterizzata da una serie di pantaloni di velluto e camicette di seta.

4. Autunno/Inverno, 1995 Qui la supermodella Kate Moss ha sfilato con una camicia di raso verde acqua, aderente come una lingerie. Abbinata a una mini borsa iridescente, il look rappresentava il picco degli anni ’90, poi replicato lo stesso anno da Madonna agli MTV Music Video Awards.

5. Autunno/Inverno, 1996 Due stagioni dopo, con la sua sfilata dell’autunno 1996, il brand riuscì a sostenere questa risalita positiva ma con un pubblico molto più ampio, ora più ricettivo al nuovo approccio di Ford al glamour. Lo stilista americano capisce fin da subito l’importanza delle campagne pubblicitarie e unito alle sue direttive stilistiche, Gucci ritorna ad essere un punto di riferimento nel panorama internazionale.

5. Autunno/Inverno, 1996 L’abito più iconico della sfilata sarà però il completo rosso velluto, indossato poi quello stesso anno da Gwyneth Paltrow – abbinato a una camicia azzurro pastello aperta sul décolleté – e reinterpretato anche nella più recente collezione Aria.

6. Primavera/Estate, 2002 Abbandonando la rigida eleganza che lo aveva caratterizzato fino a poco prima, nel 2002 Ford introduce nuove forme rilassate, per quella che si sarebbe poi rivelata essere la sua ultima collezione come direttore creativo del brand. La nuova estetica sposa un savoir faire dalla risonanza hip-hop, con pantaloni ultra-casual e giacche con cuciture asimmetriche sono state tagliate extra-large.

6. Primavera/Estate, 2002 Ford mostra qui grembiuli delicatamente raccolti e un abito nero a doppio strato rivettato con minuscoli ganci a occhiello.

7. Autunno/Inverno, 2006 Dopo l’improvvisa dipartita di Ford vengono quindi nominati tre diversi designer: John Ray, Alessandra Facchinetti, che diventa Direttore Creativo per l’abbigliamento donna nel 2004, e Frida Giannini, designer di Gucci dal 2002, nominata direttore creativo del brand nel 2006.

7. Autunno/Inverno, 2006 Quest’ultima attenua l’esplosione Porno Chic del suo predecessore, reinterpretando il brand “da sexy a sensuale”. Il suo debutto è più colorato e ricco di stampe, pieno di abiti femminili dal sapore anni ’70.

8. Autunno/Inverno, 2015 Nel gennaio 2015 viene nominato come nuovo direttore creativo Alessandro Michele, già designer del brand dal 2002. Da questa data si può tracciare la vita di una “nuova Gucci” dal gusto sofisticato, intellettuale e androgino. Dopo due decenni di sesso ostentato, arriva una moda post-gender aiutata anche dal nuovo casting: non solo modelli e modelle incredibilmente giovani, ma anche un'aria quasi goffa e asessuata.

8. Autunno/Inverno, 2015 La collezione donna porta una nuova freschezza al marchio, con stampe floreali, pizzi, ricami e pelliccia, a volte il tutto mescolato insieme su un unico indumento.

9. Autunno/Inverno, 2018 Una processione transumana in una sala operatoria. Nel 2018 Alessandro Michele raccontava nei suoi abiti la metafora dell’autodeterminazione, una popolazione in fase di rigenerazione grazie alle nuove potenzialità offerte dalla tecnologia. Ispirandosi a “Manifesto cyborg” di Donna Haraway, pilastro della filosofia femminista pubblicato nell’84, Gucci mette in passerella una figura che supera il dualismo di identità, unendo natura e cultura, maschile e femminile, normale e alieno, psiche e materia.

9. Autunno/Inverno, 2018 Qualcuno cullava un cucciolo di drago. Un paio di persone avevano repliche delle loro teste infilate sotto il braccio. Molti avevano il volto coperto da balaclava lavorati a maglia, suggerendo surrealmente uno stato post-operatorio.

10. Gucci Love Parade, 2021 Nella sua ultima opera, il direttore creativo Alessandro Michele ha fatto brillare l’iconico Hollywood Boulevard, rendendo omaggio alle prime star del grande schermo statunitense. Nella presentazione delle nuove collezioni donna e uomo, ritroviamo tutti i ricordi e personaggi mitologici dell’infanzia di Michele in passerella, sotto forma di trasfigurazioni contemporanee.

10. Gucci Love Parade, 2021 In questo processo di sintesi, l’abito bianco indossato da Marilyn Monroe nel film “Quando la moglie è in vacanza” diventa un long dress di raso color latte bordato a pieghe, o ancora un completo blazer scollato a V.


Ed è anche grazie a Michele se si è instaurata una nuova prospettiva del rapporto tra fashion e design, con la riscoperta e l’affermazione della fondamentale affinità dell’alta moda con il più ampio e articolato settore della cultura. Ce lo ricordano progetti come il festival Disco Diva, l’album di cover di musiche dai film di Pasolini Canzonette, l’attività dei molteplici Gucci Circolo, ambienti con sale lettura, pop up di libri rari, juke box e sale per ascoltare vinili, nonchè il patrocinio di mostre, come “Fashioning Masculinities” al V&A di Londra. Ma anche lo slancio verso il futuro della comunicazione, con i filtri Instagram e Gucci Vault, ovvero l’angolo del metaverso brandizzato dalla storica maison fiorentina fortemente voluto da Michele stesso come ponte tra il passato e il futuro della moda. E ancora, il coinvolgimento di uno storico fotografo di The Face come Glen Lutchford o la passione per il cinema culminata nel 2021 con “Overture of something that never happened”, una miniserie in sette episodi co-diretta da Michele con Gus Van Sant.

A Michele dobbiamo anche una volontà di ripensare l’ambiente della sfilata, rendendo il set design un elemento simbiotico alla collezione. Un tema che è poi diventato caro a molte altre maison, specialmente in seguito alla necessità (e libertà) di trovare spazi alternativi per presentare le loro creazioni durante la pandemia Covid-19.  Per esempio, la sfilata per la collezione Fall 2018 ha traslato la passione di Michele per il taglia e cuci concettuale in una scenografia asettica e in pvc da sala operatoria, con i modelli che reggevano copie iperrealistiche delle loro teste o riproduzioni di rettili e altri animali fantastici. 

Con Michele abbiamo celebrato la nostra entusiasta prigionia nel post-moderno, come ironizzava il direttore creativo stesso con il maglione “Copie Delle Copie Delle Idee” per la collezione Pre-Fall 2018, o con la linea improntata sul claim “FAKE” stampato sulla storica banda rosso-verde della casa di moda. L’aver reso Dapper Dan, lo stilista newyorkese che nell’epoca d’oro dell’Hip Hop si era fatto un nome per il suo plagio di brand pregiati come Louis Vuitton, rientra nella volontà dell’oramai ex direttore artistico di Gucci di sovvertire la semantica del nostro heritage pop, pur riconoscendone con intelligenza l’inevitabile stratificazione e ciclicità, anzi traducendola in icone capaci di trascendere la sola moda. 

I suoi riferimenti, che hanno pescato a piene mani dall’esoterismo, dal cinema alto (Kubrick, Dario Argento, Gus Van Sant) e dalle sottoculture (il northern soul, l’Italo Disco e il glam rock su tutte) hanno fatto gioire tutti quegli adepti della cultura alternativa, che finalmente si sono sentiti rappresentanti laddove era tutto un indecifrabile sistema di lusso e codici. D’altronde il Gucci di Michele ci ha entusiasmati così tanto perché ci ha fatto capire che i sogni adolescenziali, fatti di poeti maledetti, rockstar sdentate e edonistici balli sudati, possono sfondare la diga del mainstream partendo dal basso, anzi plasmandolo e finalmente rimpossessandosi della coolness e dell’attualità di cui erano state a lungo private.

Il sorriso di Dani Miller, cantante del gruppo punk Surfbort, per la campagna Gucci Beauty 2019 è stata una delle tante celebrazioni dell'imperfetto volute da Alessandro Michele.

Di fianco a un susseguirsi di talent vergini alla moda e dai lineamenti non convenzionali, Gucci ha fatto coincidere con l’haute couture personaggi che mai erano appartenuti ad essa, dall’ex One Direction Harry Styles ai Maneskin, passando per membri di realtà autoctone come il romano Betani Mapunzo o lo staff del ristorante cinese capitolino Hang Zhou Da Sonia. Così facendo Michele si è fatto messia e demiurgo di una vera e propria scena di adepti e di uno stile di vita definito nell’estetica, nelle icone, nel sound, nella filmografia e nelle letture tanto da tratteggiare una nuova post-sottocultura. Un modus operandi che oggi viene studiato nei corsi di moda e che è diventato uno standard riconosciuto per l’intera industria. 

Chi avrebbe mai potuto immaginare Francesco Bianconi dei Baustelle sfilare come un dandy decadente e allampanato per Gucci? O il coinvolgimento, anche grazie al lavoro di Michela Tafuri, di gruppi di completi outcast come gli statunitensi Surfbort, Curtis Harding e Black Lips nelle campagne del brand? D’altronde lo suggeriva proprio l’uso, nella sua sfilata di debutto, delle musiche dei Blonde Redhead, una band noise di culto a cavallo tra anni Novanta e 2000.

Alessandro Michele stesso, assieme al CEO Marco Bizzarri, non aveva mai fatto mistero di voler aprire Gucci ad un ambizioso dualismo. Da un lato le tute, le sneaker e gli accessori, oltre alle semplici t-shirt con impresso un gigantesco logo del brand, che hanno contribuito alla crescita esponenziale della desiderabilità del marchio a livello popolare; e dall’altra raffinati abiti dai tagli ’70, endorser pescati dalla nicchia punk di Los Angeles ed elaborati substrati semantici nei comunicati stampa per aprire all’alta moda una nicchia altrettanto lontana da essa.

A tutto ciò si aggiunga poi la smania del mercato di oggi per il metaverso, i Tik Tok, o il patrocinio di eventi culturali. E con esso il difficile equilibrio tra la volontà di celebrare un heritage e di rispondere alla fame bulimica di una clientela internazionale per cui quel “Gyuccheee”, tra il trascinato e lo sboccato, rappresenta oggi un’agognata reverenza e desiderio di Made in Italy, di lusso e immaginari stratificati. 

'Overture of something that never happened' (2021) è una miniserie in sette episodi co-diretta da Gus Van Sant e Alessandro Michele realizzata per promuovere una collezione Gucci e che mette in luce la volontà del direttore creativo di spingersi oltre una visione tradizionale e settoriale della moda.

Le dimissioni suggeriscono la fine di un ciclo, che sarà molto più chiaro da comprendere a posteriori. La visione di Lallo in Gucci sembrava essere arrivata a fine corsa, terminata in un inevitabile cul-de-sac semantico, quasi parodico dello stesso nella sua vocazione per la reiterazione di un immaginario androgino e efebico a cavallo tra ’70 e  ’80. Gucci Garden, il museo fiorentino dedicato al suo lavoro nel brand con l’attiguo Gucci Osteria da Massimo Bottura ne rimane a testimonianza, allo stesso tempo climax e culmine della celebrazione di una visione e di una estetica totalizzante.

Mentre si attende il prossimo passo di Michele, si solleva un altro quesito. Quanto può ancora durare per i grandi brand di moda l’idea di un direttore creativo, unico condottiero al comando, unica visione in un mercato troppo complesso, diversificato e articolato.

Palace Gucci Collection, Alessandro Michele in collaborazione con Palace Skateboards e i co-foundatori Lev Tanju e Gareth Skewi Courtesy Gucci Vault

Immagine in apertura: Gucci Exquisite, Space Odissey, 2001, Photographers & Directors: Mert & Marcus. Courtesy Gucci