Come l’arte e il design stanno ridefinendo l’idea di mascolinità

Due mostre a Londra raccontano come il design applicato a campi apparentemente distanti come moda e tifo calcistico abbia giocato – e tuttora giochi – un ruolo fondamentale nel costruire e decostruire stereotipi di genere.

Due mostre a Londra (“Fashioning Masculinities” al Victoria & Albert Museum e “Martin Parr & Corbin Shaw” presso la Oof Gallery), ognuna con la propria riconoscibile e distinta impronta curatoriale, mettono in luce come il design sia strumentale nel plasmare l’identità di sé e degli altri.

Sia che si confrontino con il tema della moda maschile – la prima – o che esplorino l’universo del tifo calcistico – la seconda – entrambe le mostre offrono con successo un contributo al dibattito, apertissimo, sulla mascolinità nella società contemporanea. Sembra, dunque, non essere una coincidenza il fatto che abbiano inaugurato a un solo giorno di distanza l’una dall’altra. 

Gli spazi, certo, non potevano che essere più diversi tra loro: la pomposa raffinatezza del Victoria & Albert Museum da un lato, l’ambiente tutto led, hi-tech e acciaio del nuovo Tottenham Hotspur Stadium dall’altro. Una differenza che, in realtà, aiuta a meglio comprendere quanto ampio, cross-generazionale e cross-culturale sia il tema in questione. 

Installation view of Fashioning Masculinities at V&A, featuring Craig Green look (c) Victoria and Albert Museum, London
Installation view of Fashioning Masculinities at V&A, featuring Craig Green look (c) Victoria and Albert Museum, London

Il maschio: un costrutto alla moda?

Attraverso le sue tre sezioni Undressed, Overdressed e Redressed, la mostra del V&A curata da Claire Wilcox e Rosalind McKever insieme alla ricercatrice Marta Franceschini allestisce intelligentemente un percorso tematico, anziché cronologico, per offrire uno sguardo critico e approfondito capace di illustrare come il concetto di gender sia stato costruito e modificato nel tempo proprio attraverso i vestiti. 

“In Undressed, abbiamo voluto mostrare come diversi gruppi e identità si siano appropriati di archetipi ben riconoscibili usandoli per plasmare la loro iconografia e linguaggio”, racconta a Domus la ricercatrice parte del team curatoriale Marta Franceschini. Opere e lavori di artisti come Del LaGrace Volcano e Cassils, che fanno esplicitamente uso di ideali e stereotipi per poi sovvertirli, risultano dunque come veri e propri “episodi di attivismo”. 

Installation view, finale of Fashioning Masculinities at V&A (c) Victoria and Albert Museum, London
Installazione di Fashioning Masculinities al V&A (c) Victoria and Albert Museum, Londra

L’esposizione di queste creazioni al fianco di calchi di sculture classiche e pubblicità di intimo Calvin Klein assume così lo scopo di dimostrare come “l’idea di maschio è un costrutto, un concetto fluido, costantemente aggiornato, e non in maniera lineare. Una definizione che vive un periodico processo di risemantizzazione”. 

Questo concetto è sintetizzato in maniera esemplare nel dialogo instaurato tra elementi quali vignette satiriche del Diciannovesimo secolo che ironizzano sull’uso di corsetti da parte di uomini, un blazer del 1996 di Jean Paul Gaultier con riprodotto un torso di statua classica in tromp l’oeil e delle opere di Tom of Finland – l’illustratore che ha contribuito a definire l’estetica della cultura omosessuale dei ‘70 e ‘80. 

  

Nonostante l’aleatorietà della moda sia la cosa più distante dall’esattezza delle leggi matematiche, si potrebbe addirittura sostenere che l’eccesso di iper-mascolinità abbia spesso, se non sempre, alimentato – in un processo di reazione inversa – la mitologia queer. 

Decostruire l’idea di maschio attraverso l’obiettivo

Si consideri, per esempio, la figura dello skinhead. Seppur tradizionalmente identificato con un immaginario di durezza nei modi e nei costumi, di violenza e cameratismo maschilista, nella cultura underground degli anni ‘90 le sue connotazioni di maschio bianco eterosessuale furono totalmente decostruire con l’ascesa della scena gayskin. Una nicchia iconografica e sottoculturale che i lavori del regista Bruce La Bruce e del pittore Attila Richard Lukacs trasformarono in culto, tanto che anche Alexander McQueen ne fece uso nelle sue sfilate.

Analogamente, la mitologia del tifoso – fatta di stereotipi di machismo e mascolinità tossica – sembra oggi capovolgersi nelle fotografie di Martin Parr. 

Martin Parr, "Portsmouth FC fans, Bradford, West Yorkshire, England, 1980" © Martin Parr, Magnum photos courtesy of Oof Gallery
Martin Parr, “Portsmouth FC fans, Bradford, West Yorkshire, England, 1980” © Martin Parr, Magnum. Courtesy of Oof Gallery

Descrivendo lo scatto ritraente un gruppo di tifosi del Portsmouth in trasferta a Bradford nel 1980, Justin Hammond curatore della Oof Gallery ci spiega: “Il corteo è pieno di skinhead e ragazzi dall’aspetto rude in donkey jacket [giacca da lavoro tipica dei portuali e minatori inglesi, ndr], ma al fondo c’è un giovanotto che indossa un montgomery, probabilmente ispirato da David Bowie ne L’Uomo Che Cadde Sulla Terra. Di fatto, sta comunicando che non c’è bisogno di indossare dei Dr. Martens o di legarsi una sciarpa al polso per essere un hooligan.”

L’antropologia voyeurista di Parr è senza dubbio celebre per offrire rappresentazioni spiazzanti del fandom sportivo. Il suo ritratto di un tifoso della nazionale inglese in apertura della mostra ne è un esempio perfetto. I segni di una canotta lasciati dall’abbronzatura sulla schiena nuda e il vernacolare provincialismo di una gita domenicale al molo di Clacton decostruiscono e ridimensionano istantaneamente il messaggio di dominanza fisica che tanto la mole del corpo quanto i suoi tatuaggi patriottici, ormai scoloriti, vorrebbero comunicare. Per assurdo, l’esultanza liberatoria e selvaggia di un ragazzo mingherlino – a torso nudo ma con una sciarpa in lana a proteggerne il collo – riescono a sovvertire le nostre aspettative, costruendo una mascolinità nuova. 

Hammond spiega come il distacco emotivo di Parr dall’azione calcistica in sé sia la chiave dell’efficacia delle sue rappresentazioni. Egli può infatti “trascurare il calcio e concentrarsi nel catturare i tifosi nei momenti in cui sono più spontanei”. 

Martin Parr, 'Wolves fans, Wolverhampton, England, 2012', © Martin Parr, Magnum photos courtesy of Oof Gallery
Martin Parr, “Wolves fans, Wolverhampton, England, 2012”, © Martin Parr, Magnum. Courtesy of Oof Gallery

Il potere sociale del fashion design

Le dinamiche entro cui il mondo della moda ha definito nel tempo il concetto di gender non è fatto solo di forme e di, più o meno esplicita, accentuazione dei sessi. Stoffe e pigmenti hanno infatti uno stretto e intricato legame con l’espletazione della mascolinità, come raccontato dalla mostra al V&A. 

É senza dubbio affascinante scoprire come colori che la società contemporanea assegna, con ristrettezza di vedute, all’universo femminile – come il rosa o il porpora – siano in passato stati orgogliosamente indossati come simboli di potere maschile e asserzione dei propri gusti raffinati, nonché del proprio status sociale e commerciale. 

Secondo Franceschini il loro uso “in specifici scenari culturali” corrisponde ancora oggi  a dichiarare “la propria presenza attraverso l’apparenza”.

Installation view of Fashioning Masculinities at V&A, featuring Alessandro Michele for Gucci look worn by Harry Styles (c) Victoria and Albert Museum, London
Installazione di Fashioning Masculinities al V&A (c) Victoria and Albert Museum, Londra

“La sezione Overdressing si riferisce anche al fatto che le sensazioni fisiche derivanti dall’indossare certi vestiti possono relazionarsi alla volontà di una persona di esprimere la propria identità”. Così la ricercatrice del V&A spiega le nuove connotazioni di androginità assegnate ai velluti di lusso e a tinte preziose come rossi e rosa sia dalla Peacock Revolution dei giovani inglesi degli anni ‘60, sia da Alessandro Michele con Gucci – principale sponsor della mostra. 

Un abito di Versace del 1992 ispirato da un ritratto di Dudley, musicista e poeta del ‘600 presso la corte di Re James I, è esempio eloquente delle parole di Franceschini.

Disegnare un nuovo archetipo di tifoso

Una sovversione di significati che il design – da intendersi come più ampia disciplina artistica – consente con risultati tanto profondi quanto divertenti nelle opere di Corbin Shaw esposte alla Oof Gallery. I suoi striscioni e gagliardetti, che interferiscono con la semantica dei canti e degli slogan tradizionalmente associati alla cultura distintamente mascolina degli spalti, funzionano squisitamente in dialogo con le fotografie di Parr. 

“Corbin ha avuto un’infanzia tipica della classe operaia. Veniva portato alle partite di calcio, agli incontri di pugilato e al pub. Dunque quando la tua intera vita ruota attorno a questi ambienti iper mascolini, c’è una grandissima pressione a conformarsi,” spiega a Domus Hammond, “anche se vuoi distanziartene e fare altro, c’è un conflitto stridente, perché in questi luoghi ci sono le persone che ami. Per Corbin, la molla è scattata quando il padre gli ha raccontato del tragico suicidio di un caro amico. Questo lo ha ispirato a disegnare le sue prime bandiere con slogan come ‘We Should Talk About Our Feelings’”.

Corbin Shaw, "Football Without Fans Is Nothing", 2022. Photo: Oof Gallery.
Corbin Shaw, “Football Without Fans Is Nothing”, 2022. Foto Oof Gallery

“Football Without Cans Is Nothing” recita un’altra bandiera, mentre il pubblico indossa vecchie sciarpe con scopo più estetico che militante e una ragazza posa per i fotografi in una gonna ricavata da una maglia dell’Arsenal.

L’aggiornamento dai toni queer e post-Brexit delle tradizioni e del folklore inglese da parte di Corbin Shaw è infatti uno dei fenomeni più peculiari e affascinanti della cultura Britannica contemporanea. Il calcio e la mascolinità non potevano di certo sfuggire alle sue sovversioni semantiche, che hanno inoltre toccato (in alcuni casi assieme al compagno e artista Sam Nowell) temi come il Royal Wedding e le danze del Maypole associate agli antichi riti dell’Inghilterra rurale.

Corbin Shaw, 'Take My Hand', 2022. © Corbin Shaw. Courtesy OOF Gallery.
Corbin Shaw, “Take My Hand”, 2022. © Corbin Shaw. Courtesy OoF Gallery

Una corrente artistica che si diverte a decostruire la cultura machista del pub e dell’hooliganismo che si ritrova anche nelle maglie da calcio trasformate in abiti dal gusto Vittoriano della stilista Sophie Hird, o dalle canotte assemblate con le tovagliette promozionali dei produttori di birra di Adam Jones – due apripista del della nuova moda Britannica nel dopo Brexit. 

Ciò contribuisce a comprendere come la costruzione del concetto di gender, che si tratti di capi antichi di secoli o di fandom calcistico, sia qualcosa che ci interessa e coinvolge quotidianamente, con artisti e designer a farne da demiurgi. 

La passerella è una conversazione aperta

Installation view of Fashioning Masculinities at V&A (c) Victoria and Albert Museum, London.
Installation view of Fashioning Masculinities al V&A (c) Victoria and Albert Museum, Londra

Come sottolinea Marta Franceschini, “il red carpet è una conversazione”, dove nuovi significati sono assegnati ai capi da chi li indossa, anche secondo la propria attitudine. Ci spiega questo concetto conducendoci davanti a due manichini: uno con un completo di fine anni ‘50 dal gusto Edoardiano appartenuto al socialite Bunny Rogers, rappresentazione di eleganza e dandysmo formale e uno con una sua reinterpretazione pret-a-porter anni ‘70, simbolo di devianza giovanile quando indossato dai revivalisti della sottocultura Teddy Boy, disegnato da Sir Hardy Amies. 

Dopotutto, il fatto che uno dei più apprezzati sarti nella storia della moda maschile britannica – nonché autore dell’essenziale breviario ABC of Men’s Fashion – fosse omosessuale non sembra certo essere una casualità. Anzi, un’altra prova – non che fosse necessaria – che la prioezione del concetto di maschio è altamente elusiva e volubile, costantemente in evoluzione attraverso la storia.

Immagine di apertura: Installazione di Fashioning Masculinities al V&A, featuring Alessandro Michele per Gucci look indossato da Harry Styles (c) Victoria and Albert Museum, London

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