Somewhere, di Sofia Coppola, racconta
con le imagini una moda che con le parole aveva
descritto l’antropologo francese Marc Augé in
Non luoghi.
Entrambi, saggio e film, parlano di ambienti
anonimi e stereotipati, privi di storicità e
frequentati da persone in transito.
Sono abitacoli delle Ferrari, suite a cinque stelle,
feste private in locali riservati. Il regista ci
racconta di stanze banali, di un’architettura
moderna senza autore, sulla quale si è posata la
patina del tempo, come le camere di Château
Marmont. Sono interni insespressivi,
stanze qualunque.
Sono l’immagine di moltissimi spazi in cui siamo
già capitati. La sala d'aspetto di una clinica, il
pianerottolo di un condominio, dove qualcuno ha
messo una piantina, verde come il sottovaso di
plastica che spunta dal vaso arancione uguale a
tutti gli altri vasi che imitano la terracotta.
Sono ambienti nei quali siamo soltanto passati o
dove siamo rimasti in attesa che succedesse
qualcos’altro e per questo non vi abbiamo mai
prestato molta attenzione. Sono spazi di cui
sempre
altri si sono presi cura, senza amarli. Sono
interni
in definitiva nei quali non abbiamo mai vissuto,
che
abbiamo lasciato invecchiare senza di noi.
Iniziamo
a vederli soltanto ora, quando ci vengono
raccontati, quando diventano delle immagini.
Intorno ad essi allora si concentra l’attenzione, si
riconoscono degli elementi che li descrivono
come
tali. Alla parola qualunque si inizia ad associare
una
serie di oggetti che acquistano un significato
perché
la loro presenza segnala che siamo capitati in un
dove circoscritto da un certo numero di regole
che
chiamiamo stile e la visione del mondo,
che esse sottendono eravamo abituati a soliti
definire come estetica, almeno fino a
quando questa visione del mondo si basava sulla
teologia, su un’ ideologia o su un’utopia.
Estetica, in altre parole, è la percezione del bello
derivata da un pensiero forte, come la religione o il
marxismo cui fanno capo ad esempio l’arte gotica o
l’esteica marxista. Oggi è prudente sostituire la
parola
estetica, troppo in odore di metafisica,
con
quella più rilassante di moda, riferendoci
alla definizione che di essa ci ha lasciato Roland
Barthes: l’appropriazione di una forma o di un
uso
da parte della società grazie ad alcune regole
(…) è
soltanto allora che il fenomeno di parure diventa
fenomeno di costume.
II Home can be an airport or a library, a
garden or a motorway dinner.
Le stanze di Somewhere sono suite con
il
loro arredi senza nulla di particolare, nulla di
disegnato, non hanno nulla di squallido, la patina
del tempo che le ricopre dà loro l’aria di
tranquillo
pomeriggio che ne rende accogliente
l'anonimato.
Assomigliano agli scatti di Francesco Bolis o
all'asciutto bianco e nero di Sigal Ben David,
che spiega il senso del suo lavoro quasi con le
stese parole con
cui abbiamo descritto l'ambiente di
Somewhere: "The concept my
work revolves around is our living space.
Intimacy
and time are essential components in shaping it.
By
photographing empty, deserted, functional or
transitory living spaces, I refer, as well, to what
we
consider as habitual living space. There is a fine
line between aesthetic and disturbing, intimacy
and
alienation, familiar and formal. In my
photography
work I question what makes a space actually a
home?".
A questa domanda risponde un Lettore di
Proust,
cui ha dedicato un piccolo saggio, Alain de
Botton.
Non stupisce quindi che, per definire l’ambiente
domestico in Architecture of
Happineness,
egli faccia ricorso prevalentemente all’elemento
psicologico: "In turn, those places whose
outlook matches and legitimates our own, we
tend
to honour with the term home". Architettura
e
design, ovvero le discipline del progetto, non
sono
coinvolte e non lo sono perché non vogliamo una
casa, vogliamo sentirci a casa.
"Home can be an airport or a library, a
garden
or a motorway dinner.", continua De
Botton."Our love of home is in turn
acknowledgement of the degree to which our
identity is not self- determined. We need a
home in
the psycological sense as much as we need one
in
the physical: to compensate for a vulnerability.
We
need a refuge to shore up our states of mind,
because so much of the world is opposed to our
allegiances. We need our rooms to align us to
desirable versions of ourseves and to keep the
important, evanescent sides of us".
Nella trama di Sofia Coppola a rendere
domestici
quegli ambienti è proprio qualcosa che ricorda le
madeleines di Marcel Proust: una
colazione
con delle uova alla benedict preparata con cura,
dei
momenti trascorsi di fronte alla Wii, ma mai
nessun elemento di arredo, nessuna sedia,
divano,
tavolo o quadro e tanto meno nessuna volta,
nessun tetto piano, nessun elemento proprio del
linguaggio dell’architettura, il cui squallore è
cancellato proprio dalla patina del tempo che
posatosi su di essa, la ha resa più famigliare,
come
gli anni, che ammmorbidendo i tratti di un volto
ne
cancellano la severità trasformandola a volte in
tristezza, in malinconia o in serena
rassegnazione.
III Non rinuceremo facilmente allo stato
moderno.
Agli architetti non resta dunque che iscriversi a
dei
corsi di cucina o sostiutire la matita con la
consolle
di un videgioco? Che senso ha riaffermare il
progetto nonostante la storia abbia reso
obsolete le
ragioni stesse sulle quali era costruita ogni
proiezione? Sarebbero progetti senza senso?
"With the growing presence of Internet as a
site
of social interaction and society’s increasing
mobility architecture’s formerly central role in
making place, and even the need of place, has
been called into a question", scrive infatti
Einsemann. "Displace metaphysics, and
architecture’s role in framing presence as thruth
becomes problematized".
Proviamo a riguardare questi Somewhere
ingialliti.
Hanno lo stesso colore dei mobili che si trovano
dai
rigattieri, sono ambienti moderni vintage, essi
sono
case, sono stanze disadorne che un tempo
parlarono di futuro, con la sua promessa di
velocità
e tecnologia, democrazia e scienza. Anzi, in
quanto
anonime sono l’architettura banale
descritta da Alessandro Mendini nella
Poltrona
di Proust e quindi di quelle promesse
rappresentarono da sempre soltanto l’eco.
A ben guardarli, questi interni, sbiaditi coma una
vecchia fotografia, ci parlano della stanchezza
del
moderno, del suo lento appassire, della crisi
profonda, irreversibile delle democrazie
occidentali,
cioè dei modelli sociali che avevano generato
quelle architetture.
Non sembra quindi casuale la sincronia colta da
Andrea Branzi tra il mondo moderno,
globalizzato,
senza più un esterno e una societa diventata una
moltitudine, dove gli Stati sono sempre più
deboli:
"Viviamo in un mondo che non ha più un
esterno, né politico né geografico. (..) Un mondo
definito ma non definitivo: illimitato ma con limiti
di sviluppo; monologico ma ingovernabile; senza
confini, ma privo di un’immagine
globale.
Il Non Luogo augeriano, interpretato dal
moderno
vintage delle immagini di Somewhere,
sembra quindi trovare riscontro nei sentimenti di
John Dunn: "Non rinunceremo facilmente allo
stato moderno. (…) Oggi, in politica, democrazia
è
il nome di ciò che non possiamo avere e che
tuttavia non possiamo smettere di
volere".
Riaffermare le discipline del progetto come
utopie,
anzi come nuove utopie potrebbe quindi
significare
non smettere di credere - sono parole di Richard
Rotry - che le società liberal-democratiche
dell’Occidente hanno dato luogo alla miglior
forma
di vita associata tra quelle promosse
nell’umanità
nella sua storia, ma al tempo stesso ritenere che
questo sia il frutto di una convinzione non
suscettibile di dimostrazione.
Immagini:
1 Sofia Coppola, da Somewhere
2010
2-4 Sigal Ben David, Untitled
07.25.09
© Sigal Ben David
5 Château Marmont, standard
room
Courtesy Château Marmont
6-7 Francesco Bolis, Lawrence
Steele's house
© Francesco Bolis
8-9 Francesco Bolis, Maurizio
Pecoraro's
house
© Francesco Bolis
10Cucina CUBEX, CIAM Palais des
Beaux Arts de Bruxelles, 1930.
©
AAM
Vintage e Democrazia
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- Pierfrancesco Cravel
- 23 settembre 2010