Definire il wabi-sabi? Un esercizio periglioso anche per un giapponese, come ci racconta Leonard Koren nel suo libro Wabi-Sabi for Artists, Designers, Poets & Philosophers (1994). Crasi di due parole – wabi, la solitudine di chi vive nella natura; sabi, patina del tempo, bellezza della trasformazione – questo concetto scaturito dal buddismo zen prende inizialmente forma in Giappone attraverso la ritualità della cerimonia del thè, per poi estendersi progressivamente diventando sinonimo di un’attitudine artigianale e di una qualifica estetica.
Wabi-sabi: perché il design dell’imperfezione continua ad affascinare l’Occidente
Metafisico e spirituale, il wabi-sabi oggi è soprattutto un’estetica del quotidiano, che ha trovato nel design nuove possibilità di appropriazione e rilettura. Abbiamo selezionato 8 oggetti per raccontarlo, da Andrea Branzi a Shiro Kuramata passando per i Campana.
Domus 667, dicembre 1985
foto Emilio Tremolada
foto Emilio Tremolada
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foto Emilio Tremolada
foto Emilio Tremolada
foto Emilio Tremolada
foto Eline Willaert
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- Giulia Zappa
- 11 novembre 2025
Cos’è allora, il wabi-sabi? La traduzione con la parola “rustico” è talmente riduttiva da non riuscire a coglierne neanche il nocciolo duro. Senza nessuna pretesa di esaustività né di eccessiva accuratezza, potremmo definire il wabi-sabi come un ordine sistemico di carattere metafisico, non strettamente legato alla funzionalità di un oggetto ed orientato a valorizzare la bellezza dell’incompletezza e della trasformazione.
All’inizio del diciassettesimo secolo, il wabi-sabi inizia a cristallizzarsi appunto con la cerimonia del thè. Le ciotole utilizzate dai primi maestri sono la risposta giapponese alle ceramiche cinesi smaltate, colorate, espressione di perfezione tecnica e formale. Il wabi-sabi, al contrario, apprezza la texture ruvida, i toni neutri, la traccia del tempo, persino il difetto, e vede nel legame con la natura un’opportunità di ritrovata armonia e contemplazione.
In Occidente, il wabi-sabi non ha mancato di affascinare numerosi adepti attratti dalla sobria valorizzazione dell’imperfezione, dall’umiltà di un oggetto anche banale, e ancora più in profondità dalla capacità di trasmettere attraverso un artefatto il senso di immanenza del corso della vita. Come spesso accade, la translitterazione dall’Oriente ha portato alla nascita di nuove sensibilità e di cortocircuiti che hanno arricchito le significazioni di questa fenomenologia. Come raccontano gli otto oggetti che abbiamo selezionato in questa gallery, tra Andrea Branzi, Alchimia e Paola Navone, tra i fratelli Campana e Shiro Kuramata passando per Maarten Baas.
Chi sa se Andrea Branzi avrebbe annuito all’idea di un possibile accostamento tra l’orbita del wabi-sabi e la sua collezione Animali Domestici – una tappa cardine della sua progettualità, che lo porta a superare l’esperienza di Alchimia e Memphis per mettere in risalto una nuova espressione per archetipi, legata all’idea di natura come presenza di vita. Resta il fatto che è proprio questa collezione ad introdurre un simulacro naturale così vivido e diretto nell’orbita della casa: un modo per apprezzare l’irregolarità mai uguale a sé stessa di tronchi e rami, riscoprendone la bellezza formale, tattile e metafisica.
L’oggetto non è mai (solo) un pezzo di arredo funzionale per Shiro Kuramata, ma sempre un veicolo verso una ricerca spirituale. In questa poltrona dalle forme generose in rete metallica, Kuramata ridefinisce i canoni della leggerezza, e invita a guardare oltre, lontano – verso la luna, come vuole il suo nome – per afferrare un momento di poesia e contemplazione.
In questa serie di tavoli, Nakashima trasforma la carpenteria nella possibilità di integrare senza soluzione di continuità elementi naturali con altri levigati dall’uomo. Dando vita ad un ibrido che più di ogni altro sa valorizzare la presenza mutevole di una materia che non si maschera, ma al contrario lascia trasparire i suoi stati e le sue metamorfosi.
Dal 1990 al 1995 il collettivo Droog ha riconfigurato il ruolo e la presenza degli oggetti secondo valori che possono essere assimilati al wabi-sabi: l’importanza accordata al processo, l’annullamento della gerarchia tra i materiali, la valorizzazione dell’irregolarità, dell’oggetto “brutto”. In questo vaso in porcellana ricavato a partire da una spugna naturale, Marcel Wanders riesce a trasporre tutta l’unicità materica di una forma naturale. Rompendo con i codici levigati della porcellana bianca, e catturando l’essenza e l’aura della natura in un calco fedele.
Il lavoro dei fratelli Campana è stato spesso interpretato secondo la chiave di lettura del “barocco tropicale”. Eppure, soprattutto per un’icona della loro produzione giovanile quale è la Favela Chair, l’assemblaggio spontaneo di elementi residuali e senza valore ricorda e riattualizza la filosofia wabi-sabi. Insegnandoci che le cose possono svilupparsi a partire dal non-essere, e che la bellezza può scaturire dal brutto: “dal letame nascono i fior”, come del resto cantava Fabrizio De André.
Nel 2004, i designer 5.5 non esitano a hackerare una sedia da osteria ormai prossima al fine vita con una protesi platealmente artificiale. L’accostamento parla di contrasti – tra il legno e la plastica, tra la materia naturale e la chimica verde fluo – ma anche di una possibilità di rinascita e cura, come il nome stesso suggerisce. Oggi, la Chaise soignée avec béquille è un classico del design di recupero, una forma di kintsugi che sostituisce all’oro uno spirito eminentemente punk.
Come creare un processo di variazione singolare attraverso una produzione seriale? Con la sua serie Standard Unique, Marteen Baas ci offre una risposta ingegnosa: i sedici pezzi della sua sedia da cucina possono essere assemblati in maniera diversa grazie a giunti sempre uguali, dando vita ad un numero ampissimo di configurazioni possibili. Esaltando la stortura, il taglio rustico e impreciso come nuova estetica del quotidiano.
La designer torinese è un’adepta di lungo corso del wabi-sabi, a cui si è avvicinata nel corso dei suoi lunghi soggiorni in Asia, rivisitandone la sensibilità in numerose installazioni e architetture di interni. Eppure, l’esaltazione del potenziale estetico dell’oggetto anonimo e quotidiano non è l’unica rilettura che Navone dà del wabi-sabi. Ancora più interessante, forse, è la capacità di traghettare il wabi-sabi tra i long seller della produzione industriale. Nella collezione Brick di Gervasoni, il tavolo integra senza soluzione di continuità una lastra in acciaio trattato a cera con sezioni di tronchi di albero utilizzate come gambe. Un equilibrio delicato ma stabile e compiuto, che testimonia una nuova possibilità di convivenza.
Il nuovo wabi-sabi sarà una manifestazione del design del vivente? In questa lampada realizzata a partire da un substrato di alghe, l’osservazione della traccia lasciata dalla natura si trasforma in una presenza magnetica, oltre che in un oggetto propriamente funzionale. Rinnovando ancora una volta il concetto di bellezza scaturito da materiali che in molti considerano brutti, come le alghe. Ed esaltando una patina particolarmente affascinante perché in costante divenire.