Definire il wabi-sabi? Un esercizio periglioso anche per un giapponese, come ci racconta Leonard Koren nel suo libro Wabi-Sabi for Artists, Designers, Poets & Philosophers (1994). Crasi di due parole – wabi, la solitudine di chi vive nella natura; sabi, patina del tempo, bellezza della trasformazione – questo concetto scaturito dal buddismo zen prende inizialmente forma in Giappone attraverso la ritualità della cerimonia del thè, per poi estendersi progressivamente diventando sinonimo di un’attitudine artigianale e di una qualifica estetica.
Cos’è allora, il wabi-sabi? La traduzione con la parola “rustico” è talmente riduttiva da non riuscire a coglierne neanche il nocciolo duro. Senza nessuna pretesa di esaustività né di eccessiva accuratezza, potremmo definire il wabi-sabi come un ordine sistemico di carattere metafisico, non strettamente legato alla funzionalità di un oggetto ed orientato a valorizzare la bellezza dell’incompletezza e della trasformazione.
All’inizio del diciassettesimo secolo, il wabi-sabi inizia a cristallizzarsi appunto con la cerimonia del thè. Le ciotole utilizzate dai primi maestri sono la risposta giapponese alle ceramiche cinesi smaltate, colorate, espressione di perfezione tecnica e formale. Il wabi-sabi, al contrario, apprezza la texture ruvida, i toni neutri, la traccia del tempo, persino il difetto, e vede nel legame con la natura un’opportunità di ritrovata armonia e contemplazione.
In Occidente, il wabi-sabi non ha mancato di affascinare numerosi adepti attratti dalla sobria valorizzazione dell’imperfezione, dall’umiltà di un oggetto anche banale, e ancora più in profondità dalla capacità di trasmettere attraverso un artefatto il senso di immanenza del corso della vita. Come spesso accade, la translitterazione dall’Oriente ha portato alla nascita di nuove sensibilità e di cortocircuiti che hanno arricchito le significazioni di questa fenomenologia. Come raccontano gli otto oggetti che abbiamo selezionato in questa gallery, tra Andrea Branzi, Alchimia e Paola Navone, tra i fratelli Campana e Shiro Kuramata passando per Maarten Baas.
