“Essere eclettici non significa disperdere il proprio ingegno”: intervista a Gentucca Bini

La fashion designer prestata al design e all’architettura racconta la sua lunga collaborazione con Alcantara: le mostre, le installazioni e il progetto della nuova sede.

Gentucca Bini, Alcantara

Dall’esposizione all’Aurora Museum di Tadao Ando a Shanghai nel 2015, la collaborazione tra Alcantara e Gentucca Bini non è più terminata. Un anno dopo, durante il Salone del Mobile, grazie allo stesso materiale interviene sulla facciata del palazzo di Corso Como a Milano. E ora sarà lei, fashion designer con un marchio tutto suo, a occuparsi del restyling dell’headquarter milanese dell’azienda.

Com’è nata la tua collaborazione con Alcantara? 
Nel 2014 sono stata chiamata da Domitilla Dardi, a partecipare a una mostra collettiva curata da lei e da Giulio Cappellini con Alcantara al Maxxi di Roma: “Souvenirs d’Italie” con Lanzavecchia Wai, Paola Navone e altri designer e, la richiesta era di progettare oggetti souvenir d’Italia utilizzando l’Alcantara come materiale principale. Ero l’unica pescata dalla moda – anche se in realtà è stata la moda tanti anni fa ad avermi pescato dal design e dell’architettura. Ho deciso di fare un piccolo progetto a metà tra moda e design, e ho progettato quattro paia di guanti di marmo stampato su Alcantara per simulare le mani delle statue romane, nelle posizioni dei gesti tipici degli italiani. Poi ho dato un nome a ogni gesto: aó, tiè, ave, vaff. Ogni paio con la mano sinistra preformata in posizione di un gesto, da vendere in un packaging da Barbie, che raffigurava le varie architetture romane. Stampando un materiale su Alcantara, mi sono accorta che era possibile riprodurre fedelmente la realtà, applicando tecniche di stampa all’avanguardia, confondendo l’occhio fino a che non si fosse toccata la materia. Pensare di toccare un materiale freddo come il marmo e trovare invece una morbida e calda superficie vellutata, ha fatto scattare nella mia testa una serie di riflessioni progettuali che mi hanno portato oggi a realizzare delle architetture d’interni usando appunto la stessa tecnica, messa a punto con l’azienda negli ultimi quattro anni. 

Altri progetti con l’azienda, sviluppati in passato e futuri? 
Subito dopo, sono stata invitata a partecipare alla mostra collettiva a Palazzo Reale a Milano nel 2015. Vi partecipavano, tra gli altri, Ingo Maurer, Italo Lupi, Migliore e Servetto. La richiesta dei curatori era che s’interagisse con lo spazio, le stanze dei Principi, utilizzando l’Alcantara. L’unico vincolo era che non si poteva toccare nulla: pareti, arredi, tutto doveva rimanere intatto. Ho pensato: “Adesso vi faccio vedere io”. E così ho provato a immaginare delle riproduzioni con la mia tecnica di stampa su Alcantara. Ho riprodotto pezzi di stanza, pareti, arredi, pavimenti e li ho riposizionati negli stessi punti, ma disassandoli, facendoli cadere, esplodere, creando illusioni ottiche o disturbi, anomalie che sorprendessero il fruitore abituato all’ordine e alla perfezione di quegli spazi, rimasti intatti nei secoli. Così, nella mimesi più totale, l’Alcantara mi ha permesso di far cadere le tappezzerie intoccabili, di far ruotare, di accartocciare il parquet, di far alzare i pavimenti. Ho avuto la conferma che la mia operazione funzionasse alla perfezione quando la signora delle pulizie entrando in una delle stanze ha urlato: “Ah si è staccata la tappezzeria!” Obiettivo raggiunto. E così l’anno dopo sono stata invitata all’edizione successiva della mostra, con la curatela di Massimo Torrigiani, Davide Quadrio e Selva Barni.

Essere eclettici non significa disperdere il proprio ingegno e la propria creatività; significa estenderlo, amplificarlo. La percezione comune non arriva alla somma, preferisce la differenza. A me interessano la complessità e la somma.

Cosa ti affascina di questo materiale e come preferisci utilizzarlo? 
Oltre a rappresentare l’avanguardia a livello di tecnologie e a essere un materiale sostenibile, sia come approccio al progetto che per la struttura interna Carbon Neutral è un materiale affascinante e molto complesso; risultato di un processo produttivo complesso, che parte da due polimeri per arrivare, attraverso km di percorso industriale, alla realizzazione di fili dal calibro infinitesimale, che vengono pressati e raffinati. Affascinata dalle mie prime prove, ho capito che la resa della stampa ad alta risoluzione di elementi architettonici o di arredo era impressionante e che riuscivo a restituire la tridimensionalità su una materia inesorabilmente bidimensionale. E che questo mi avrebbe dato la possibilità di mettere in scena dei giochi di illusione ottica all’interno degli ambienti, altrimenti impossibili da produrre in architettura.

Tu sei una fashion designer: Alcantara ti ha chiesto di sviluppare un concept per il restyling della loro sede a Milano. Inusuale, no? 
“Gentucca, ma tu esattamente cosa fai?” È la domanda che mi viene posta più spesso e da sempre. Essere eclettici non significa disperdere il proprio ingegno e la propria creatività; significa estenderlo, amplificarlo. La percezione comune non arriva alla somma, preferisce la differenza. A me interessano la complessità e la somma. Quello che applico a qualsiasi disciplina è la progettualità, che è la prima forma di pensiero sostenibile rinascimentale da applicare per creare evoluzione. E il progetto m’interessa, a prescindere dall’ambito in cui mi trovo. Per questo, di sovente, vengo chiamata a svolgere il ruolo di direttore creativo di grandi marchi della moda ma anche del design, proprio perché solo attraverso il progetto si crea evoluzione e contemporaneità. Quindi la risposta è che sono una progettista. 

Gentucca Bini
Gentucca Bini

Qual è stata la tua ispirazione per gli spazi?
Ho deciso di portare all’interno di spazi fine anni Ottanta rimasti invariati nel tempo un’architettura impossibile per la struttura in cui si trova, che fonda i suoi riferimenti culturali e formali nell’architettura di Tadao Ando. Il cemento armato stampato su Alcantara invade gli spazi con tagli di luce che simulano quelli naturali della sua Chiesa a Hiroo, e l’approccio parassitario delle sue architetture che vivono appoggiate a contesti completamente distanti dalla austerità del materiale utilizzato – approccio che condivido e che da sempre applico ai miei progetti in nome di quel contrasto che va creato per amplificare la percezione della memoria e del contesto stesso.

Tornassi indietro, che lavoro vorresti fare? L’architetto? 
Io torno sempre indietro, ogni volta che inizio un progetto e anche mentre lo produco. E, ogni volta, mi accorgo che il lavoro che sto facendo è quello che voglio fare.

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