Affrontare la malattia leggendo i dati

Intervista a Giorgia Lupi sul suo progetto Bruises, realizzato con Kaki King, per raccontare la malattia tramite la combinazione di musica e data visualisation.

“Bruises – The Data We Don’t See” è una storia d’amore che parla di piastrine, medicine, lividi, petali e speranze. Una storia cruda, raccontata dall’information designer e artista Giorgia Lupi, co-fondatrice dello studio Accurat, insieme alla musicista (e protagonista della storia in questione) Kaki King, mediante la combinazione di musica e data visualisation.  È l’agosto 2017 quando a Cooper, la figlia di due anni di Kaki, viene diagnosticata l’ITP (porpora trombocitopenica idiomatica). Una malattia autoimmune del sangue che comporta la formazione di lividi e ferite con il rischio di emorragie cerebrali. Kaki è in difficoltà e Giorgia la vuole aiutare, ma come?

“Viviamo in un arcobaleno di caos”, diceva Paul Cézanne. Ed è grazie a un processo di decodifica di tale caos che Giorgia e Kaki riescono a comprendere, visualizzare, in un certo senso dominare le emozioni di quel periodo fino a giungere a una catarsi. I sintomi di Cooper, raccolti per 120 giorni, diventano segni e note di un percorso empatico. Come possono dei numeri asettici trasformarsi in una coinvolgente poetica? Com’è possibile ordinare le espressioni fluide della natura umana attraverso i dati? Lo abbiamo chiesto alla stessa Giorgia, autrice – insieme con Stefanie Posavec – del progetto Dear Data, acquisito dal MoMA di New York e punto di partenza della sua teoria del Data humanism.

Fig.1 Giorgia Lupi, Kaki King, “Bruises – The Data We Don’t See”

Come sei riuscita ad aiutare Kaki, in questo momento di grande difficoltà?
Ho cercato di capire in che modo potevo starle vicino mediante ciò che so fare ovvero raccontare storie con i dati. Assieme abbiamo impostato una tabella per registrare giorno dopo giorno i dati clinici, ma anche gli aspetti qualitativi di quello che stava vivendo: le emozioni. In quattro mesi di osservazione Kaki è riuscita a riprendere il controllo – per quanto possibile – della situazione, di visualizzare il parallelismo tra i lividi di Cooper e il suo livello di stress e di impedire che ansia e paura mettessero a rischio la sua stessa salute e il suo ruolo di buon genitore. La raccolta di dati le ha anche permesso di comunicare meglio con i dottori e di apprezzare i momenti di gioia, prestandoci attenzione.

Fig.2 Giorgia Lupi, Kaki King, “Bruises – The Data We Don’t See”

Qual è il potere dei dati che non vediamo?
Abbiamo ragionato su come da questa lettura particolare della storia di Cooper si potesse trarre un’indicazione generale per chi sperimenta situazioni analoghe e per creare empatia attraverso i dati. Le registrazioni di valori clinici difficilmente riescono a cogliere l’impatto che la malattia di un bambino ha sulla sua famiglia, perciò abbiamo voluto identificare e comunicare le informazioni mancanti, i dati che normalmente non guardiamo, cercando e trovando in essi quasi un potere di guarigione.

Fig.3 Giorgia Lupi, Kaki King, “Bruises – The Data We Don’t See”

Hai dichiarato di considerare i dati non come la risposta a una domanda ma come l’inizio della conversazione. In che senso?
Spesso descriviamo i dati come la base su cui prendere decisioni. Ma data-driven non significa “inconfondibilmente vero”. Credo sia tempo di abbandonare questa presunzione di verità universale e accogliere una concezione dei grandi numeri accompagnati dalle imperfezioni che contribuiscono a descrivere la realtà. Più che darci risposte, i dati dovrebbero fornirci spunti per ulteriori domande, nuove e più significative. Ciò richiede anche un cambio di paradigma nel modo in cui li rappresentiamo includendo gli aspetti qualitativi – più morbidi, intimi, fluidi e sfumati.

Fig.4 Giorgia Lupi, Kaki King, “Bruises – The Data We Don’t See”

Quando i dati hanno cominciato a parlare per te?
Da bambina passavo i pomeriggi a riorganizzare i bottoni di mia nonna sarta, per colore, dimensione, numero di buchi, classificandoli con etichette. Inoltre amavo disegnare, ovunque, perfino sui muri della mia stanza. Ho studiato architettura, perché sembrava combinare questi due bisogni – struttura e regole, e creatività e libertà – e post laurea ho sperimentato l’interaction design, per poi spingermi verso l'information design. Quando ho compreso il potenziale della traduzione in immagini di dati strutturati e non, per rendere accessibili fenomeni o contesti complessi, mi sono innamorata.


In che modo i dati possono renderci più umani?

Per molto tempo abbiamo considerato il mondo delle relazioni, delle idee, delle persone in conflitto con quello dei numeri, della scienza. Credo invece che guardare ai dati con un occhio umano possa rivoluzionare ogni ambito in cui vengono applicati. Come gli umanisti del XIV secolo hanno riportato l'attenzione sull'uomo, dovremmo capovolgere la prospettiva rispetto ai dati se vogliamo davvero renderli parte delle nostre vite: è questo ciò che chiamo Data Humanism. Mi piace dire che i dati possono essere uno stato d’animo, un atteggiamento, più che una questione di competenze e strumenti, e da ultimo che possono aiutarci a capire meglio noi stessi, se li guardiamo con le lenti giuste.

Fig.5 Giorgia Lupi, Kaki King, “Bruises – The Data We Don’t See”

I dati raccolti da Kaki ci danno accesso alla sua vita privata. Qual è la tua posizione sul tema della privacy?
Per Kaki, in realtà, la scelta di condividere informazioni personali è stata volontaria. In generale credo che per rendere le persone più coscienti del valore dei propri dati e dei modi in cui possono essere trattati si debba permettere loro di visualizzarli. In questo modo, magari, impariamo a prendere meno alla leggera le normative che sottoscriviamo utilizzando un social network o un sistema informativo. Nessuna scelta è obbligatoria: dipende da noi sfruttare le nuove tecnologie accettandone gli svantaggi.

Come sta Cooper?
I dottori sono concordi nel dire che probabilmente guarirà presto.