Incamminarsi al mattino sulla spiaggia di Anse Volbert a Praslin, significa essere presto ipnotizzati dalle migliaia di piccoli fossili bianchi che costellano la battigia: tanto da far dimenticare l'Oceano, il Cielo, l'Orizzonte da cartolina turistica, per portare e tenere fisso lo sguardo in basso su un'incessante performance. Smossi continuamente dall'onda leggera, appaiono e scompaiono nella sabbia ciottoli e conchiglie dalle forme più strane e sensuali ma soprattutto coralli, già levigati dal tempo o ancora aguzzi, rametti o intere chiome, ma tutti inevitabilmente bianchi (tranne qualche pallida e rarissima traccia di rosa) a formare una sorta di lunghissima installazione in scala ridotta di un ipotetico, immenso, sculpture garden tra terra e acqua. Il bianco di queste microsculture non è però segno di festa, ma di lutto, proprio come nel costume giapponese.

Il cronista viaggiatore, temporaneamente fuori servizio, si accorgerà presto con tristezza che non di composizione artistica si tratta, ma di cimitero: gettate sulla riva a eterno ricordo delle distruzioni provocate nella barriera dallo tsunami, o dal riscaldamento delle acque che ha ucciso il 90% dei coralli delle Seychelles, ognuna di quelle forme, che sarebbero l'invidia di Hans Arp (o di Henry Moore, nei casi più kitsch), è solo un altro piccolo monumento alla caducità degli esseri viventi, alla minaccia costante della morte sotto cui essi, tutti, nascono e si sviluppano. Questo viene in mente ripensando allo stress del lavoro che attende, distante migliaia di miglia dall'isola, all'urgenza e alla curiosità di raccontare, ad esempio, un progetto come la nuova invenzione di Tokujin Yoshioka. Il giovane designer giapponese ha scoperto una "seconda natura" dentro un misterioso processo di cristallizzazione, che gli permette di far crescere letteralmente, dentro l'acqua – proprio come un corallo o una madrepora – le forme di alcuni mobili archetipi: chaise longue, poltrona e, perfino, una Venere di Milo ironicamente decostruita in migliaia di piccoli cristalli aggregati a ridefinire le inconfondibili sembianze di un mito dell'arte di tutti i tempi, icona involontaria di quello stesso kitsch tanto amato anche dalla Natura.

Il segreto del progetto, che sarà il centro di un'esposizione che si inaugura a Tokyo questo mese, non è però tanto nel processo tecnico, nella composizione chimica, nella ricetta gastronomica (per quanto sorprendente) di questo "Design on the Rocks", quanto nella metodologia straordinariamente inventiva di Tokujin: che prova, ogni volta (quasi ogni volta) che si trova ad affrontare una nuova committenza o una semplice occasione di ricerca, a ricostruire un modo diverso di far nascere gli oggetti, più o meno mirabolante, a seconda che si tratti di prodotti industriali o di prototipi come questi. In ogni caso, quasi sempre ispirato dalla natura, di cui misteriosamente riesce a riprodurre i processi generativi (ma non necessariamente gli esiti formali), in un'artificiale, impossibile sfida al destino mortale che tocca alla natura stessa, Tokujin pare tenersi ancora una volta alla parola data nel suo primo libro, di cui ritrovo una copia dedicata l'11 aprile di sei anni fa: "Even when everybody thinks a project is impossible, a way will open up as long as you challenge old ways with interest and with courage".