Cristina Di Carlo e Christopher Redfern incrociano i mestieri di architetto e designer in un nuovo albergo a Milano. Fotografia di Santi Caleca

Il linguaggio degli alberghi, e quindi la loro progettazione, va al di là dei problemi quotidiani, funzionali e commerciali posti dall’industria turistica (dalle uscite di sicurezza al prezzo di una camera) e rispecchia innanzi tutto l’immagine che una società ha di sé e il modo in cui funzionano le città stesse.

Negli anni Sessanta, l’albergo era una sorta di biglietto da visita nazionale, che doveva dimostrare al pubblico dei frequentatori quanto il paese fosse aggiornato e progredito. I solidi di vetro, come il SAS Palace di Arne Jacobsen a Copenaghen, o gli smisurati alberghi di Mosca erano considerati essenziali dall’apparato di uno stato ambizioso: al pari di un’acciaieria o di una centrale nucleare, e talvolta potevano anche assomigliare ad esse. Rappresentare il generale e racchiudere il particolare: l’albergo deve insomma essere domestico e al tempo stesso esotico. Agli inizi dell’era del turismo di massa, gli alberghi situati in luoghi strani o insoliti erano progettati in modo da creare un rassicurante senso di familiarità: da qui la formula degli Holiday Inn, secondo la quale ogni ‘avamposto’ della catena, da Bangkok a Torino, è costruito su un progetto unico e standardizzato.

Tutte le camere da letto di una certa fascia di prezzo sono identiche, fino al dettaglio della posizione degli interruttori elettrici. I ristoranti propongono lo stesso menu, e il colore locale resta prudentemente confinato nella lista degli stuzzichini serviti con i cocktail. Per facilitare le cose, anche i nomi sulle targhette delle uniformi del personale sono anglicizzati. Eppure per godere di tutte queste rassicurazioni bisogna pagare un prezzo. Così ormai il Costa do Sol o il Turkish Riviera assomigliano parecchio alle abitazioni piccolo-borghesi o agli uffici che i turisti si sono lasciati alle spalle partendo per le vacanze. E quando gli alberghi d’affari posti nel centro delle città hanno lo stesso aspetto e quasi lo stesso odore in tutti i continenti, alla fine l’effetto è di disorientamento e spaesamento totali.

La reazione a questa insipida uniformità è cominciata già con l’ondata di fantasia e di esotismo degli alberghi di Morris Lapidus a Miami, con la sfarzosa stravaganza dell’Hilton di Roma degli anni Sessanta, e con il barocco di cemento degli alberghi americani di John Portman: ma poi è accaduto che questa originalità forzata diventasse altrettanto prevedibile dell’uniformità alla quale si voleva rimediare. Negli anni Ottanta nuovi sviluppi, strettamente legati l’uno all’altro: da un lato un certo senso di colpa per le conseguenze di questa prevedibilità, dall’altro un’accorta valutazione in termini commerciali del peso di una larga fascia di turisti; i loro gusti andavano affinandosi, fino a spingere gli addetti ai lavori a impegnarsi per creare una generazione di alberghi “politicamente corretti”, che non avessero l’aspetto così terribilmente americano dei precedenti, ma cercassero di diventare parte del paesaggio in cui erano inseriti.

Adrian Zecha, fondatore del gruppo Aman, è stato il primo a servirsi di riferimenti all’architettura locale per alberghi situati in città non occidentali. Il primo albergo di Zecha, l’Amanpuri, fu aperto nel 1988 a Phuket, un’isola turistica tailandese. Il progettista, Ed Tuttle, deriva parecchi elementi da Geoffrey Bawa, un architetto dello Sri Lanka autore di una sintesi fra l’architettura del suo paese natale e il modernismo dell’Occidente. L’Amanpuri ha attirato un turismo ricco, e ben presto questo stile si è diffuso dalla Tailandia a Bali, dalle Filippine al Messico e al Marocco. Oggi alle Mauritius è facile imbattersi in strutture che ricordano l’architettura di un villaggio balinese, architettura che potrebbe sembrare attenta e rispettosa delle tradizioni locali, adatta a un turismo di gente facoltosa.

E lo sarebbe forse se si trovasse nel Sudest asiatico, invece che a cinquemila chilometri di distanza, su un’isola al largo della costa africana. Questo stile genericamente asiatico è diventato onnipresente, quasi quanto in tempi passati fu il blocco geometrico in stile Bauhaus. Sono costruzioni che sembrano tener conto del clima, ma in realtà sono rigorosamente attrezzate con aria condizionata. Sembrano benedette da un verde rigoglioso, ma in realtà hanno bisogno di acqua e di fognature come qualsiasi altro albergo. Questa insomma è diventata la faccia accettabile del lusso contemporaneo: luoghi in cui le ultime Marie Antoniette vengono a giocare alle pastorelle.

Forse più ancora di Zecha è l’imprenditore Ian Schrager colui che ha segnato l’architettura alberghiera contemporanea. Dopo la prematura fine della sua carriera di proprietario di locali notturni, Schrager ha rivolto l’attenzione agli alberghi. Aveva già avuto a che fare con Arata Isozaki per la discoteca Palladium di New York, e l’esperienza gli aveva fatto apprezzare e avvicinare progettisti di grande livello. Vent’anni fa chiese ad Andrée Putman di progettare il Morgans Hotel, dando così il via a un’altra formula chiave. Putman ha trasformato un posto di infimo ordine in un albergo chic: l’interno buio, il personale in uniforme Yamamoto nera dalla testa ai piedi, e un’abile campagna di pubbliche relazioni, mirata ad attirare una clientela del genere “rock-and-roll”, hanno contribuito a reinventare il ruolo degli alberghi, più simili così a centri di incontro sociale che a dormitori per uomini d’affari.

Poi Schrager ha incontrato Philippe Starck, e il resto è storia. L’albergo “d’autore” che Schrager e Starck hanno creato si fonda in gran parte sul desiderio di dare agli alberghi un certo sapore domestico. Le lenzuola di lino, le moquette di materiali naturali, il lettore di CD in ogni camera e la ben calibrata dotazione dei minibar sono tutti tentativi volti a rendere più personale la camera d’albergo. Paradossalmente questo tipo di albergo, ormai onnipresente, ha finito per diventare a sua volta una istituzione. Lo stesso Schrager, nonostante la crisi che si fa sentire dappertutto, cerca di mitigarne certi lati divertenti per tenersi stretta la clientela degli uomini d’affari più seri e compassati che ancora viaggiano in tutto il mondo: la loro credibilità sarebbe compromessa, se scendessero a un Royalton o a un Paramount. L’Enterprise, l’albergo più nuovo di Milano, appartiene alla seconda generazione degli alberghi “d’autore”. Ha qualcosa di Schrager e qualcosa di Zecha. Con i ristoranti e i bar di cui è dotato si è cercato di aprirlo a un pubblico più vasto e renderlo parte della città, ma non si è rinunciato a disporre alcuni buddha dorati in bella vista nell’atrio.

L’edificio è stato costruito a suo tempo come sede di una casa editrice di un famoso settimanale di enigmistica: una struttura massiccia e utilitaria di nessun rilievo architettonico. Solo la scala e la forma erano in sintonia con certi viali della città di stile haussmanniano, un po’ annacquato. Sopra c’erano gli uffici, nel seminterrato e in un capannone adiacente stavano le macchine da stampa. L’edificio, rimasto vuoto per parecchi anni, infine è stato comprato per una possibile destinazione ad albergo. Il principale punto di forza è infatti l’ubicazione, pochi minuti a piedi dall’area fieristica della città in continua espansione. La struttura, fatta sopra di stanze piccole e sotto un grande spazio aperto, era già praticamente quella di un albergo di oggi: che deve far colpo a livello dell’atrio, ma deve anche stipare il maggior numero possibile di letti. Milano, cui stranamente fanno difetto alberghi moderni, è sembrata la città ideale in cui aprire una struttura al servizio di un flusso continuo di ospiti con qualche esigenza di stile.

Il lavoro di ristrutturazione ha potuto contare sulla supervisione tecnica di uno studio di architettura, ma il carattere finale è frutto della collaborazione tra l’architetto Cristina Di Carlo e Christopher Redfern, un industrial designer, che hanno fatto parte dello studio Sottsass Associati. Questa collaborazione ha dato all’Enterprise un tocco insolitamente delicato e raffinato. I decisi interventi sullo spazio vanno di pari passo con una cura meticolosa nella scelta dei materiali, per non parlare del grande impegno dedicato ai dettagli, dal disegno dei marmi del bar del piano terreno al sistema di illuminazione. Sulla facciata è stato posato un secondo rivestimento in pietra, che può ricordare Loos. Gli interni sono splendidamente illuminati, con apparecchi appositamente realizzati da Flos, in una vasta gamma di sfumature e toni che fanno sentire l’edificio radicato nella tradizione urbana: parte del retaggio che l’insegnamento di Ettore Sottsass lascia a Milano, più che esempio di progetto per il progetto.