Pubblicato in origine su Domus 409/dicembre 1963
Come sempre accade con gli artisti,
conobbi Azuma in un bar
di Fiori Chiari, pochi mesi or
sono. Me lo presentò Edo Franceschini:
piccolo, modesto, cortesissimo,
sorridente, non sapevo
quanti anni dargli, e a un certo
punto la curiosità fu troppa e
glielo domandai. Dunque: Kengiro
Azuma, che vuol dire (in Giappone
tutti i nomi hanno un significato)
"il secondogenito di
mia moglie", è nato nella maggiore
isola del suo paese, ma
non a Tokio, nella parte montuosa.
Anno 1920. Dunque niente
guerra? No no, intervenne lui
subito, cinque anni, cinque anni
di guerra. Era andato volontario
a sedici, ne uscì a ventuno, col
grado di capitano, e uno stato di
servizio sbalorditivo. Sulla tovaglia
di carta mi disegnò il profilo
del suo apparecchio, un cacciabombardiere:
quei sette circoletti
sulla fusoliera significavano altrettanti
aerei americani abbattuti.
In più, una petroliera inglese di
grosso tonnellaggio finita in fondo
al mare, durante la battaglia
per le Filippine.
A un certo punto il capitano Azuma,
asso della sua squadriglia,
chiese di partecipare a un'operazione
di tipo nuovo, che il
comando stava preparando. In
breve: decollare col carburante
per il volo d'andata soltanto, e
senza paracadute, attaccare il nemico
e non rientrare alla base.
La chiamavano "operazione primavera", che detto in giapponese
suona: "kamikaze". Ma questo
onore – tale lo consideravano
i piloti nipponici – non toccò al
giovane Azuma, che se ne rammaricò.
Be', anche noi dicevamo:
"chi per la patria muor vissuto
è assai", ma altro è dire, altro è
fare. Loro lo facevano: era scintoismo.
Cioè, l'imperatore è Dio,
e chi muore per l'imperatore si
guadagna gloria e vita eterna.
Una volta che andò in visita al
paese di Azuma, ai loro bambini
fu comandato di prosternarsi e
di non osare uno sguardo sul Dio
incarnato. Così li educavano.
Finita la guerra col fungo di
Hiroshima, consule Mac Arthur,
vietato lo scintoismo per semplice
ordinanza del comando alleato, il
paese in sfacelo, la fame e la disoccupazione,
capitano, anzi eroe
di guerra, ma d'una guerra persa,
nessun altro mestiere noto se non
quello di volare, sparare, rischiare
la vita, Kengiro prese a frequentare
la biblioteca pubblica,
un po' per istruirsi, un po' per
passare il tempo. Un caso fortunato
volle che gli capitasse fra le
mani una monografia, ricca di
riproduzioni, su di uno scultore
italiano, che si chiamava Marino
Marini. Fu una specie di folgorazione:
Kengiro scoprì la scultura,
e da quel giorno ebbe un solo desiderio, impararla, ma so·
prattutto venire in Italia, e studiare
con Marini.
Ce la fece: vin e finalmente (al
secondo tentativo) una borsa di
studio, raggiunse Milano, frequentò Brera, conobbe il suo
Maestro, che l'accettò (un'eccezione alle sue abitudini) nel pro·
prio studio, alunno privilegiato e
poi anche un po' aiutante.
Marini trovava il modo di infilargli in tasca qualche biglietto da
mille, la sera a lavoro finito,
perchè di solo entusiasmo non si
campa, specialmente a Milano. E
gli dava molti consigli, ma uno
soprattutto: "Tu devi smetterla
di imitarmi. Tu hai dietro di te,
dentro di te, una tradizione, una
patria, un'infanzia, delle immagini originali. Questo devi tirar
fuori, questo devi raccontare".
Per Kengiro Azuma fu un lavorio
lento e faticoso, di ricerca, di
approfondimento, e oggi c'è arrivato,
sta tra gli scultori milanesi
(tale egli si considera) più
stimati, sia in Italia che all'estero.
Anche in Giappone acquistarono
una sua grande opera per la Gal·
leria Internazionale d'Arte Moderna. Il premio era di mille
dollari, che non bastarono a pagare
neanche la metà dei costi,
fra materia e trasporto.
Ecco perchè Kengiro Azuma, fra
i settanta giapponesi che formano
la colonia nipponica in Milano
(ci sono artisti suoi amici, ma
anche uomini di affari, e formidabili tecnici della pollicultura,
capaci di distinguere a colpo il
sesso di un pulcino) ecco perchè
non è di sicuro il più ricco. Ha
l'automobile, ma abita giù alla
Bovisa: un grande stanzone per
lavorare, ingombro di gessi e di
legni, poi una sola stanza per
vivere, lui, la moglie e la bambina, che è bellissima. Lì prima
c'era un laboratorio, e di sotto
c'è ancora una fabbrichetta, abbastanza rumorosa, di tappi metallici. Ci sono stato: la signora
prepara subito il tè, alla sua maniera,
vale a dire molto leggero
e senza zucchero, lui mostra come
sono fatti i giornali del suo paese,
e ci mettiamo a ridere insieme,
dinanzi a quei caratteri che sembrano
un disegno sofisticato. Un
bel giorno ci vedremo per un
pranzo alla giapponese, va bene?
Per i coniugi Azuma è ormai più
una curiosità che una nostalgia.
Di tornare al suo paese, almeno
per adesso, non parla nemmeno.
E poi il viaggio in aereo, rotta
polare, ventiquattro ore filate, cota
carissimo. In Italia si trova
come a casa, diciamo come in
patria, perchè la patria di Azuma,
oggi, è il mondo dell'arte.
Luciano Bianciardi
Kengiro Azuma visto da Luciano Bianciardi
Un vivido ritratto dell'artista giapponese nella Milano dei primi anni Sessanta scritto dalla brillante penna dell'intellettuale maremmano.
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- Luciano Bianciardi
- 29 settembre 2011
- Milano
Le collaborazioni giornalistiche di Bianciardi sono state raccolte da Isbn Edizioni nei volumi Luciano Bianciardi. L'antimeridiano I (2005) e Luciano Bianciardi. L'antimeridiano II (2008), entrambi a cura di Massimo Coppola, Alberto Piccinini e Luciana Bianciardi.