Quando il Grande Cretto di Gibellina debuttava su Domus

Le prime immagini della grande opera territoriale iniziata nel 1984 con cui Alberto Burri omaggiava la memoria di un paese distrutto dal terremoto venivano pubblicate nel 1988.

Raso al suolo dal terremoto che il 14 gennaio 1968 devasta la valle del Belìce, l’abitato siciliano di Gibellina viene ricostruito ex novo, a una ventina di km di distanza, sotto l’impulso del sindaco Ludovico Corrao che sceglie di puntare su un elenco stellare di nomi dell’arte e dell’architettura per rilanciare la vita del paese: ci troviamo, tra i tanti, Pietro Consagra, Vittorio Gregotti, Alessandro Mendini, Fausto Melotti, Franco Purini e Laura Thermes, Oswald Mathias Ungers, Nanda Vigo. E poi c’è Alberto Burri. 

Già impegnato nelle materiche realizzazioni che chiama Cretti, l’artista arriva a Gibellina nel 1984, quando i lavori del nuovo abitato sono in sviluppo da 5 anni (dopo oltre 10 di sfollamento della popolazione nelle baracche): sceglie di intervenire allora sull’abitato vecchio, cementandone le macerie in un Grande Cretto di un ettaro circa, un dispositivo di paesaggio che richiamando la memoria del paese che non c’è più, vuole riportare la vita là dove era solita scorrere. “Un luogo che acclimata la mente, francescano, nudo com’era il mondo all’inizio” divenuto com’era prevedibile ispirazione e scenografia per una gran quantità di film, video e progetti visuali, il Grande Cretto faceva la sua comparsa sul numero 698 di Domus nell’ottobre del 1988, verso la fine della sua prima fase di realizzazione.

Domus 698, ottobre 1988

Il cretto a Gibellina

I monumenti possono essere guardati di notte o di giorno. La notte però è più generosa nei prodigi. Il cretto a Gibellina è candido sotto la luna, irrealmente candido. Alberto Burri lo ha snodato lungo un declivio naturale, lo stesso che albergava Gibellina antica prima del torte moto della terra. È ampio a misura di paese, posto, come tutti i paesi contadini, nel luogo più confortevole. Prende il sole ma non ne prende troppo, vi arriva il vento ma senza impeto; c’è silenzio. Per “cretto” in lingua italiana, si intende “una crepa non molto larga nei muri, nelle lamiere” oppure, estensivamente, l’incartapecorimento della pelle e la spaccatura negli alberi. Elementi di madre natura e di “madre snatura” possono subire, quindi, questo flagello, questa erosione inclemente. Il cretto, in teoria, non può nascere cretto, può diventarlo.

Domus 698, ottobre 1988

Questa grande scultura sul terreno, così, si pone in totale dissonanza con la ragione ma, quando c’è ribellione, c’è invenzione. La gigantesca crepatura siciliana misura all’incirca dieci ettari. Sta per essere ultimata, È composta da più blocchi di cemento bianco alti un metro e sessanta, poco meno di un uomo mediterraneo. Gli spicchi megalitici disegnano tortuosamente e con pesanti ombre da canicola tutto il colle. C’è la traccia del decumano, delle vie che c’erano prima; ma ci sono anche nuovi cunicoli, spontanei nei resti geometrici. Ci sono, qui e altrove, tre possibili punti di vista: la visione aerea, quella ravvicinata e quella di entrata, come formiche, nelle insenature cementizie. Dall’aereo il cretto è algido, spicca su qualunque altro elemento del suolo. Sembra uno squarcio o una lastra tombale levigata. Da vicino è un organismo robotico, abbacinante a vedersi, un dedalo di cui è tacile perdere le coordinate. La visione più calda e anche mistica è quella dall’interno, a propria dimensione umana. C’è perdita proporzionale e tutto il reale e i suoi contini si fanno, a braccio, bianchi e di cemento. Se rotola qualcosa sembra una frana, appoggiarsi ai bordi da calore. È un luogo che acclimata la mente, francescano, nudo come era il mondo all’inizio. Eliminato il superfluo c’è la quiete assoluta; ogni evento diventa l’evento.

Se il gufo canta si sente il presagio, se frotte di uomini vi camminano con le fiaccole si pensa di essere a Troia. Di Gibellina c’era lo strazio della distruzione; era Troia, era Dresda. Di Gibellina ora c’è il nuovo innesto: ovunque c’è nell’uomo questa ostinazione puerile: laddove ci sono macerie occorre costruire. E bisogna vivere.

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