I carcerati dell’Ottocento creavano vasi di terracotta ribelli e sorprendenti

Collezionati da Cesare Lombroso e oggi conservati nel Museo di Antropologia criminale di Torino, questi oggetti di ceramica raccontano una storia inaspettata di arte, prigionia e libertà.

Negli ultimi anni la ceramica è riapparsa un po’ ovunque: corsi frequentati da chi vuole imparare a modellare l’argilla, artisti che la usano come linguaggio espressivo, designer che la riscoprono come materiale vivo e imperfetto, capace di restituire il tempo del gesto.
Dopo anni di immagini e schermi, l’idea di impastare terra e acqua per ottenere forme concrete è tornata in auge come risposta a un bisogno elementare, tanto antico quanto l’uomo.

E infatti, non ci siamo inventati proprio un bel niente. La ceramica è una delle invenzioni più antiche della storia dell’uomo, nata innanzitutto per risolvere problemi concreti come contenere, conservare, cuocere.

Museo di Antropologia criminale "Cesare Lombroso", Università di Torino. Ph. Roberto Goffi

I primi frammenti risalgono al Paleolitico, anche se è solo nel Neolitico, con l’agricoltura e la vita stanziale, che l’argilla cotta diventa indispensabile. Da quel momento in poi, dal Mediterraneo alla Mesopotamia, dalla Cina all’America precolombiana, la ceramica accompagna la storia dell’abitare e fin dall’inizio l’uomo non si è limitato a farne strumenti funzionali ma ha sentito il bisogno di decorare, incidendo segni, motivi o figure sulle superfici di quegli oggetti che utilizzava ogni giorno. La ceramica è diventata così, insieme, utensile e simbolo: un materiale capace di servire e al tempo stesso rappresentare il mondo.

Dal bisogno al linguaggio

È una lettura della storia del materiale che dimostra come sia possibile leggere il fenomeno della produzione ceramica come qualcosa di profondamente antropologico, legato alla sopravvivenza e, che allo stesso tempo, si è trasformato con il linguaggio.
Questo rapporto tra utilità e significato, tra materia e pensiero, emerge con chiarezza nella collezione del Museo di Antropologia Criminale “Cesare Lombroso” di Torino, dove, tra calchi cranici e strumenti di misurazione, si conserva una collezione di ottanta orci e brocche in terracotta incisi dai detenuti del carcere “Le Nuove” tra il 1870 e il 1916.

La ceramica è diventata così, insieme, utensile e simbolo: un materiale capace di servire e al tempo stesso rappresentare il mondo.

Il museo prende il nome da Cesare Lombroso (1835–1909), medico e criminologo veronese considerato il padre dell’antropologia criminale. Esponente del positivismo ottocentesco, Lombroso sosteneva che il comportamento criminale avesse radici biologiche e potesse essere riconosciuto attraverso segni fisici e anatomici.

Nelle carceri torinesi condusse gran parte delle sue ricerche, raccogliendo oggetti, calchi e reperti che riteneva rappresentativi della “mente del delinquente”, soffermandosi anche sul segno e sulla grafia come possibili tracce dell’inclinazione al crimine.

Gli orci di Torino

Oggetti d’uso quotidiano, destinati a contenere acqua o cibo, eppure per chi li incise furono anche un mezzo di espressione. I detenuti de Le Nuove erano soliti utilizzare, infatti, ciò che avevano a disposizione: l’argilla smaltata degli orci e strumenti improvvisati, spesso pezzi di metallo o chiodi, per incidere messaggi testuali o immagini. Testi dimostrano come questa abitudine divenne tanto diffusa da essere inserita nel regolamento del carcere, che ne proibiva severamente la pratica.

Molte delle incisioni sulle ceramiche raccolte da Lombroso risultano frammentarie, abbreviate, interrotte: in parte sicuramente per la fretta nell'esecuzione dovuta alla natura clandestina dell’operazione, in parte anche per il basso livello di istruzione dei detenuti. Si trattava spesso infatti di operai, manovali e piccoli delinquenti, provenienti dai quartieri popolari di Torino, che si esprimevano in un piemontese gergale mescolato a francesismi e neologismi.

Museo di Antropologia criminale "Cesare Lombroso", Università di Torino. Ph. Roberto Goffi

Tra gli autori più noti di queste incisioni c’è Defendente Buzzo, capo della banda del “Bersagliè d’Vanchija”, composta da ventuno membri processati nel 1900 per una lunga serie di furti. Condannato a vent’anni di carcere, Buzzo lasciò una produzione ampia e coerente: un orcio, un piatto, tre scodelle, un pitale e un medaglione, tutti decorati a bassorilievo e colorati a tempera. Come osserva Luca Spanu nel saggio dedicato alla collezione, i suoi lavori mostrano una sorprendente consapevolezza iconografica: accanto a figure allegoriche della libertà, della ragione e della tirannia, Buzzo si ritrae più volte, oltre ad accompagnare le immagini con scritte che invocano giustizia o rivoluzione.

In una scodella si legge “Sorgi o popolo – rivoluzione”, mentre in un orcio che lo raffigura se stesso sulla branda, intento a leggere libri di geometria, scrive “per vincere la noia”, accanto alla scena di un uomo impiccato all’inferriata della cella.

Curioso è notare come quelli che per Lombroso erano prove evidenti di devianza – secondo la sua teoria i criminali nascevano tali, geneticamente predisposti al crimine, e non potevano che continuare a manifestarlo anche in prigione – oggi appaiano in modo completamente diverso. Come sottolinea Spanu, questi oggetti sono testimonianza di grande consapevolezza di linguaggio: si tratta di forme artigianali di dissenso e di auto-rappresentazione nate dentro uno spazio violento, di isolamento, che ancora oggi presentano un’estetica sorprendentemente contemporanea.

Dall’art brut alla ceramica contemporanea

Negli anni in cui Lombroso raccoglieva questi oggetti, l’idea che l’espressione potesse nascere al di fuori dei circuiti ufficiali dell’arte non era ancora formulata. Solo decenni dopo, nel 1945, Jean Dubuffet coniò il termine art brut per definire le produzioni di autodidatti, internati psichiatrici o prigionieri che creavano senza formazione né finalità estetiche.

Dubuffet cercava un’arte “grezza”, libera dalle convenzioni culturali, capace di rivelare un impulso diretto e vitale. In questo senso gli orci di Torino anticipano, inconsapevolmente, quella stessa urgenza espressiva: si tratta di incisioni spontanee, lontane da ogni intento decorativo, nate per necessità più che per volontà di comunicare con un pubblico.

Quelli che per Lombroso erano prove evidenti di devianza oggi appaiono in modo completamente diverso: testimonianze di consapevolezza e di linguaggio, forme artigianali di dissenso e di auto-rappresentazione.

Questa urgenza continua a manifestarsi nelle opere di molti artisti contemporanei che nel trattare la ceramica prediligono la dimensione istintiva e tattile del fare. Tra tutti, Grayson Perry utilizza il vaso come superficie narrativa, incidendo frasi e figure che raccontano identità, colpa e desiderio. Sterling Ruby lavora sulla materia, lasciando che graffi e colature restino visibili come tracce del gesto, in una forma di espressione diretta e fisica.

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