Il crudo (ma ecosostenibile) mondo delle tonnare nell’ultimo lavoro di Francesco Zizola

In conversazione con il fotografo Francesco Zizola per l’uscita di Sale Sudore Sangue, libro per immagini sulle tonnare sarde, con un racconto di Emilio Salgari.

Francesco Zizola non ha probabilmente bisogno di presentazioni, ma è qui forse comunque opportuno sottolineare come dalla laurea in antropologia all’attività di fotogiornalista, dai tanti premi ricevuti agli importanti lavori pubblicati, dalla fondazione dell’agenzia fotografica NOOR alla creazione di 10b Photography, ogni passo della sua carriera sia stato mosso dalla voglia di percorrere un nuovo sentiero, di sperimentare nuove vie, di mettersi alla prova e non dare nulla per scontato, pur nella solidità di un progetto organico e sempre riconoscibile.

In questo senso il suo ultimo libro per Postcart Edizioni, Sale Sudore Sangue, è sia il punto d’arrivo di una ricerca durata sette anni, sia uno dei tanti possibili punto di accesso a una riflessione più ampia e complessa: dalla pesca tradizionale al tonno rosso, portata avanti da millenni nelle tonnare del Mediterraneo, e di cui oggi rimangono solo pochi esempi in Sardegna, a un grande e sfaccettato affresco sul rapporto tra uomo e natura, di prossima pubblicazione.

In occasione dell’uscita di Sale Sudore Sangue, Zizola ha accettato di condividere con Domus alcuni dei retroscena e dei motivi che hanno caratterizzato e lo hanno portato a questo nuovo capitolo della sua narrazione per immagini, corredando il tutto con una selezione ad hoc per i visitatori del sito.

Pratichi l’immersione subacquea da quando avevi 14 anni, quindi da ben prima di diventare fotografo, e l’immagine che ti ha poi portato a intraprendere questo nuovo lavoro è nata quasi come una foto ricordo, sull’onda dell’emozione, ma ha poi vinto un World Press Photo: da dove nasce la tua passione per il mare e in particolare, poi, il tuo interesse per la pesca tradizionale del tonno rosso?

Come per la fotografia, preferisco definire questa passione più propriamente amore, inizialmente giovanile e diventato poi sempre più maturo e complesso con il passare delle decadi. Il mare come realtà fisica è un elemento in cui trovo una parte profonda di me mentre, come entità simbolica, è una metafora della realtà psichica e della complessità della natura. In questo senso, l’incontro con la realtà millenaria della pesca al tonno rosso con il metodo della tonnara ha aperto scenari inediti su entrambi i piani.

Sale Sudore Sangue è un titolo che dice già molto del carattere diretto eppure mai immediato delle tue fotografie. Nel libro una certa dimensione epica s’intreccia infatti con quella quotidiana, un’aura atemporale si sovrappone a un racconto dal sapore contemporaneo: come hai raggiunto questa sintesi?

Ho cercato diversi artifici per indirizzare la narrazione visiva di una realtà presente verso una prospettiva diacronica. Il bianco e nero, con l’implicito rimando al passato e al documento sintetico, le diverse prospettive che hanno dato voce, come in un coro, a diversi protagonisti della vicenda narrata (i tonni sott’acqua, i pescatori sulle barche e in ultimo i gabbiani che dall’alto seguono opportunisticamente le operazioni di pesca), il ritmo e l’alternanza di queste visioni soggettive. Poi credo abbia contribuito in modo significativo la scelta di non mettere l’accento sulla mattanza, momento apicale di un complesso atto di conoscenza della natura da parte di questa sapiente comunità di pescatori, bensì sulla relazione tra lo spazio della natura e quello dello strumento, ovvero la tonnara intesa come trappola e anche come prova fisica del contrastato e mai scontato rapporto tra uomo e natura. 

Del racconto con cui si apre il libro colpisce forse soprattutto sentire in qualche modo la vera voce di Salgari, quella di un cronista e non quella del celebre romanziere che ambientava le sue storie in luoghi che non conosceva di prima mano. È un punto di vista raro e che rappresenta un po’ una sorpresa, ma anche una conferma delle tue intenzioni: da dove viene l’idea di pubblicarlo?

Il racconto di Salgari è frutto di una poco conosciuta pubblicazione di inizio Novecento, da poco entrata al centro del dibattito su Salgari narratore che si ispirava spesso alla cultura e al paesaggio sardo per colorare i romanzi e i racconti esotici dei suoi romanzi d’avventura. “La pesca dei tonni” è l’unico racconto direttamente riferito alla Sardegna e sembra sia frutto di un’esperienza diretta vissuta dallo scrittore. Era l’inizio del secolo scorso e Salgari interpretava il suo tempo, dove il dominio dell’uomo sulla natura era una realtà eroica e positiva. L’epica avventurosa della ciurma di pescatori che sotto il comando del Rais piegano fino alla morte una gran quantità di tonni mastodontici fa eco al secolo in cui il progresso e la tecnologia iniziano a prefigurare l’alleanza verso il dominio incontrastato dell’uomo e del suo potere sul resto delle creature viventi.

Dopo averlo letto la prima volta sono rimasto particolarmente colpito dal constatare che la pesca raccontata da Salgari era identica a quella da me testimoniata durante i sette anni del mio progetto. L’unica differenza non risiede nell’oggetto raccontato ma nelle intenzioni e nella prospettiva. Io ho voluto mettere l’accento su una realtà tutt’altro che romantica o eroica, anche se ancora positiva. I pescatori da me ritratti sono uomini che ancora conoscono la sapiente arte di trarre la sopravvivenza dalla natura senza comprometterla, e quindi declinando al futuro la sostenibilità della loro azione.

I tonnarotti che ho incontrato affrontano la natura non per dominarla, ma per misurarsi con essa, traendo quel minimo che gli serve e assicurando così longevità allo stock di pesce per le generazioni future. In definitiva è uno dei pochi esempi di industria che oggi definiremmo sostenibile; cerca il profitto ma rinunciandone a una parte immediata per garantire la sua riproducibilità in futuro.

Questa pratica, tra l’altro, non si insegna a scuola o nelle università, ma è frutto di una trasmissione pratica che avviene ininterrottamente tra generazione e generazione da millenni.

Francesco Zizola, Sale Sudore Sangue / NOOR
Francesco Zizola, Sale Sudore Sangue / NOOR

Per tornare al tema dei punti di vista, guardando le foto scattate col drone vengono in mente progetti tracciati in negativo, ma anche disegni e opere monumentali del passato, le cui pratiche risultano ancora in parte misteriose: quanto ha influito sul tuo lavoro la consapevolezza di essere alle prese con la documentazione di una tecnica di pesca che affonda le sue radici in un passato per molti versi ancora oscuro?

Sì, in genere nella mia opera di ricerca visiva gioco spesso con il secondo grado, cioè con la possibilità di sfruttare il potenziale ambiguo della natura delle immagini. Così facendo, ho trovato più interessante usare le immagini e le sequenze non tanto per offrire facili spiegazioni della realtà, ma per creare paradossi visivi, cortocircuiti di senso, curiosità… in definitiva, per stimolare domande. Credo che oggi sia importante riattivare, per quanto si può, il pensiero critico in contrapposizione a una visione omologata e omogeneizzata del reale che anestetizza le menti e le coscienze.

Quindi le reti dall’alto viste dai gabbiani possono anche essere o sembrare, per gli umani che osservano queste immagini, delle costellazioni inedite nella notte in cui ci siamo persi, e a cui ci appelliamo per cercare nuovi sentieri di senso.

Le reti della trappola, poi, sono costruzioni fisiche composte da stanze disposte su una linea retta e che sott’acqua ricordano un edificio. Queste stanze iniziano con un labirinto dove i tonni sono invitati a entrare, e terminano con un ambiente più grande detto “stanza della morte”. Questo spazio chiuso, nel suo complesso non è fatto per uccidere i pesci ma per porli sotto il controllo degli uomini al fine di selezionare, per poi ucciderli e trarne profitto, solo gli esemplari più interessanti, liberando alla fine del processo quelli più giovani. Dal punto di vista simbolico è un’architettura che separa lo spazio naturale e selvaggio, fuori dalla trappola, da quello controllato in cui l’uomo ha una chance di successo, all’interno della trappola. Un’architettura che vista dall’alto fa percepire quanto l’immensità dello spazio naturale sovrasti le dimensioni ridotte della trappola stessa.

Da una parte la tradizione di una pesca sostenibile, quindi, basata su millenni di esperienza e tramandata come metodo di sussistenza e di tutela dell'ecosistema; dall’altra la tecnologia della sua versione industrializzata, praticata soprattutto da Paesi stranieri nelle acque internazionali del Meditarraneo e reale minaccia per i nostri mari. Ovvero, la sacralità del rapporto diretto tra l’uomo e la natura contro la logica del puro sfruttamento commerciale dell’una da parte dell’altro: cosa puoi dirci dell’equivoco culturale e mediatico che criminalizza le tonnare?

Sì, hai ragione, sembra un paradosso ma non lo è; la mia intenzione è rimarcare che questo tipo di pesca apparentemente brutale nel suo epilogo (l’uccisione di grandi pesci), non solo è da preferire a quella tecnologicamente avanzata, senz’altro più redditizia ma altamente distruttiva e predatoria, ma diventa esemplare proprio nella sua rarità di importante e forse ultima chance per l’uomo di fare una passo inedito verso un agire in equilibrio con la natura, in cui questa abbia finalmente una possibilità di sopravvivere alla nostra furia distruttiva. D’altronde è di questi giorni l’evidenza di come la natura possa reagire alla nostra volontà di cieca potenza, dove i virus che vedono minacciato il loro ecosistema vanno a cercare proprio negli umani dominanti il loro ultimo territorio di sopravvivenza.

Le poche tonnare tradizionali e sostenibili tutt’ora in funzione sono un esempio di come si possa ancora recuperare un equilibrio; se scompaiono, perderemo per sempre questa conoscenza e con essa la possibilità di avere un’alternativa alla brutalità del dominio tecnologico sulla natura.

Nella pesca tradizionale del tonno rosso che si pratica nelle tonnare sarde si può rintracciare un livello simbolico molto forte, che dà spazio a una riflessione più complessa che è a sua volta al centro di un tuo lavoro più ampio: ce ne vuoi parlare?

“Sale Sudore Sangue” è una costola di un progetto più ampio su cui sto lavorando da anni. L’ho voluto chiamare Hybris, termine greco che indica la caratteristica degli uomini incapaci di riconoscere i limiti del loro agire. Gli antichi Greci sapevano che se avessero calpestato il territorio degli dèi, oltrepassando i limiti, avrebbero subito le loro ire, in forma di calamità naturali o pestilenze e disgrazie. Nella mia visione, gli dèi vengono sostituiti oggi dalla natura.

Il progetto è diviso in quattro parti, che corrispondono agli elementi naturali. Il primo capitolo è dedicato proprio all’elemento Aqua e, pur comprendendolo, non si esaurisce con il lavoro sulle tonnare. Per realizzare il libro, ora bloccato dalla pandemia ma di prossima pubblicazione per l’editore francese Delpire, sono stato in diverse località del Mediterraneo, come Sicilia, Calabria, Sardegna, Grecia, ma anche in Senegal. È in questo progetto che sperimento in modo molto marcato il potenziale evocativo e simbolico delle immagini fotografiche, utilizzando sia il bianco e nero che il colore, ma anche forme di elaborazione più sofisticate.

Sale Sudore Sangue, Postcart Edizioni, 2020
Sale Sudore Sangue, Postcart Edizioni, 2020

Sempre nell’ambito di questo progetto, e a conferma di una ricerca in costante evoluzione, Zizola ha voluto aggiungere al linguaggio delle immagini fisse un cortometraggio sperimentale, dove le immagini sono in movimento. Nei 18 minuti di “As If We Were Tunas” il gioco delle parti inscenato nel libro si fa ancora più vivo, e la paradossale immedesimazione con i tonni ancora più che con i pescatori lascia frastornati, con una sensazione di cruda inquietudine ma anche di vitalità e in sostanza di ammirazione e rispetto per una pratica di cui forse non si sa abbastanza. Presentato fuori concorso nella sezione Autori alla Biennale del cinema di Venezia del 2018, il lavoro ha ricevuto il premio SIAE al talento creativo “per un linguaggio visuale di grande intensità e per l'abilità con cui utilizza il suono e l'immagine”.

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