Dazi: storia di un freno

L'elegia delle barriere tra storia e pennello. Un conciso viaggio attraverso la storia dei dazi, dalle loro arcaiche origini alle moderne implicazioni, esaminando tele che ne narrano il gesto economico.

La cortina di ferro dei dazi ha una storia che pulsa di ambizioni e di disillusioni, di promesse e amare constatazioni. Le prime transazioni, scambi elementari tra tribù vicine, vedono sorgere la figura del gabelliere, sentinella arcigna posta a riscuotere un tributo, un piccolo freno a quella spontanea corrente di beni.

Con l'affermarsi degli stati e il desiderio febbrile di riempire le casse erariali, il dazio si fece più strutturato, più pervasivo. Le città murate del Medioevo presentavano ogni porta come un imbuto esigente, rallentando il passaggio di merci preziose, quasi a voler trattenere la ricchezza entro i propri confini. Era un mondo di barriere fisiche e di barriere tariffarie, un intrico che soffocava la libera circolazione.

L'epoca delle grandi navigazioni, con le stive colme di tesori esotici, vide il mercantilismo innalzare il dazio a dogma. La bilancia commerciale, un feticcio contabile, doveva pendere inesorabilmente a favore della madrepatria. L'oro, il sacro metallo, era la misura di ogni prosperità, e i dazi avevano il compito di custodirlo gelosamente. Si costruivano così dighe artificiali contro l'onda delle importazioni, nella vana speranza di incanalare tutta la ricchezza verso l'interno.

Il Presidente Donald Trump firma un ordine esecutivo sui piani tariffari, 2 aprile 2025. Foto ufficiale della Casa Bianca di Daniel Torok. Courtesy Wikimedia Commons

Il XIX secolo, illuminato dalla ragione e dal fervore industriale, portò con sé la promessa liberatoria del libero scambio. Adam Smith smascherò l'illusione del protezionismo, mostrando come le catene tariffarie imbrigliassero la produttività e soffocassero la crescita. L’Inghilterra abbracciò con entusiasmo questa nuova fede, aprendo i suoi porti e predicando i benefici di un mercato senza frontiere. Sembrava che il sole del libero scambio stesse per dissipare le nebbie del protezionismo per sempre.

La storia arriva ad oggi, riservando altre sorprese. Il 47° Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, presenta i dazi come un baluardo contro la concorrenza sleale, un argine a difesa dell'identità nazionale, uno strumento per piegare la volontà di altri Stati. La verità, forse, si cela in quella zona grigia dove le intenzioni si scontrano con le conseguenze, dove i benefici immediati si vanno in contrasto con i costi a lungo termine.

Georges de la Tour, Payment of Taxes, c. 1620. Lviv National Art Gallery, Lviv, Ucraina. Courtesy WikiArt

Il francese Georges de La Tour dipinge un'opera che ci parla con la severa eloquenza di una coscienza morale intensa e reale: Il pagamento delle tasse. Custodito a Lviv, in Ucraina, eseguito tra il 1625 e il 1627, l’opera si manifesta con la lapidaria evidenza di un fatto compiuto. Notte densa, squarciata da un’interna fiamma che diviene ragione e misura di ogni visibilità. Delle figure emergono da questo abisso tenebroso colti nell’atto primario dello scambio monetario. La composizione, ascetica nella sua necessità, si articola in una rigorosa economia di elementi. L’ombra è matrice da cui le forme si distillano, plasmate da un chiaroscuro tagliente, essenziale nel definire volumi che paiono scolpiti dalla luce stessa, gesti ridotti all’osso, significanti nella loro ieratica semplicità. L’esattore, eretto, con la postura che suggerisce un’autorità forse più percepita che reale. Un’altro uomo, chino sull’atto di contare o di offrire le monete, la cui materialità diviene fulcro gravitazionale della scena. Usuraio sordido o avido funzionario del fisco? 

L’ambiguità permane. In questa immagine, La Tour condensa un’esperienza già profonda, tessendo una trama di tensione palpabile, non gridata, ma sottilmente vibrante. La candela, espediente narrativo e ontologico, irradia uno spazio inatteso, modellando con forza plastica i volti, le mani – strumenti e simboli dell’azione – elevandoli a protagonisti assoluti del dramma silenzioso. L’eco di Caravaggio è vibrazione profonda in questa tela, nella costruzione sintattica della composizione, certo, ma soprattutto nella concezione dei personaggi, strappati alla genericità attraverso un realismo acuminato, una espressività intensa eppure contenuta, aliena da ogni facile declamazione. Il dettaglio si ritrae, lasciando che l’occhio si concentri sull’interazione, sul fulcro dello scambio: il denaro, opaco feticcio di un rapporto umano elementare e complesso. Nessun giudizio esplicito promana dalla tela. Essa si offre come la registrazione di un istante, una transazione economica spoglia di orpelli, lasciando allo sguardo dello spettatore il compito di decifrare le dinamiche di potere, le emozioni latenti che serpeggiano sotto la superficie austera.

Jan van Hemessen, Jesus Summons Matthew to Leave the Tax Office, 1540. Courtesy WikiArt

La tela di Jan van Hemessen, La chiamata di Gesù a Matteo è un'opera che si pone come un raffinato exemplum della penetrazione del linguaggio figurativo italiano nel tessuto culturale delle Fiandre. “Quando Gesù si portò in quel luogo, vide un uomo di nome Matteo seduto come agente delle tasse. ‘Seguimi’ gli disse e Matteo lo seguì”.  

Qui, l’episodio evangelico della chiamata di Matteo si veste di una preziosità formale che trascende la mera narrazione. Osserviamo innanzitutto la composizione: un sapiente equilibrio di masse e di linee che guidano l'occhio con una fluidità studiata. Le figure, pur nella loro terrena presenza, acquistano una dignità quasi scultorea, modellate da un chiaroscuro non drammatico, ma sottilmente modulato, che ne esalta i volumi con una morbidezza vellutata. Il gesto di Cristo, pur nella sua assertività, si ammansisce in una sprezzatura elegante, un indicare che non impone, ma piuttosto invita, suggerisce un destino superiore con una nobiltà intrinseca. La sua figura, pur emergendo dalla folla, non la sovrasta con violenza, ma si pone come un fulcro di luce e di significato, attorno al quale le altre presenze gravitano con una composta deferenza. Matteo, l'uomo interrotto nel suo conteggio, non manifesta sorpresa, bensì un'interrogazione interiore che si dipinge sul suo volto con una sfumatura di malinconica riflessione. La sua mano, sospesa tra il denaro e la chiamata, diviene il fulcro di una tensione psicologica sottile, espressa con una gestualità misurata, priva di eccessi. 

Le monete lucide, i registri accuratamente rilegati, gli abiti dalle pieghe studiate concorrono a definire un ambiente di operosa agiatezza, che la chiamata divina irrompe a trasfigurare. In quest'opera, van Hemessen dimostra una consapevolezza sofisticata delle tendenze artistiche più aggiornate, reinterpretando un tema sacro con un linguaggio che guarda all'armonia compositiva e alla nobiltà delle figure tipiche del Rinascimento maturo, pur conservando una certa attenzione al dettaglio che è cifra della sua formazione nordica. È un dialogo colto tra due mondi, risolto in una sintesi di rara eleganza formale.

I dazi? Da arcaici tributi a sofisticati strumenti geopolitici.

Immagine di apertura: Marinus van Reymerswaele, The Tax Collector, 1542, Paesi Bassi. Alte Pinakothek, Monaco, Germania. Courtesy WikiArt. 

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