Compreresti un’opera creata dall’intelligenza artificiale?

I computer sono in grado di creare arte, o forse non lo saranno mai? Intanto gli esempi di arte artificiale, a partire dall’ultima Biennale, si moltiplicano. Ne abbiamo parlato con Luca Gambardella, che analizza la natura per insegnare all’intelligenza artificiale ad essere autonoma.

Compreresti un’opera di arte artificiale? Alla Biennale d’arte di Venezia Jonas Lund firma MVP (Most Valuable Painting), un’opera partecipativa generata con l’intelligenza artificiale e parte della mostra “CodeX” organizzata da Aorist: è fatta di 512 dipinti digitali, il cui valore cambia a seconda di come reagisce il pubblico, diventando più apprezzabile e, quindi, più vendibile. A Roma, invece, il gruppo di interaction design Ultravioletto tiene aperto il proprio studio al pubblico per presentare due opere in cui l’intelligenza artificiale detta il passo: in Urban Oracle la macchina offre il proprio vaticinio attraverso testi formati da strutture luminose, in Abstract Urbanism un algoritmo genetico disegna mappe interpretando in modo inedito la pianificazione urbana.

  

A Milano Luca Gambardella, professore ordinario di AI alla facoltà di Informatica dell’Università della Svizzera Italiana a Lugano, spiega a Domus perché, secondo lui, le macchine sognano a colori e ci sono complici nell’immaginare nuovi universi artistici.

L’arte ha sempre utilizzato nuove tecniche per ridefinire la realtà, questo è un fatto. In questo caso, la spinta propulsiva è data dalla ricerca e dall’intelligenza artificiale. Il Cern di Ginevra ha attivato nel 2011 un programma di residenze per artisti e performer da cui nascono collaborazioni importanti: Mónica Bello, Head of Arts dell’Organizzazione europea per la ricerca nucleare, ha appena curato, per esempio, Perpetual Motion, l’installazione di Sigurður Guðjónsson al padiglione dell’Islanda a Venezia.

Biennale d’Arte, Padiglione Islanda, Perpetual Motion, installazione di Sigurður Guðjónsson. Foto Ugo Carmeni

Ma per capire chi fa che cosa, bisogna ripartire dalle reti neuronali: in che cosa si assomigliano quelle dell’uomo e della macchina? “La base concettuale è molto simile: il cervello umano è costituito da neuroni, sinapsi e connessioni, quello della macchina ha neuroni organizzati in strati e segue un modello computazionale che abbiamo scelto noi”, inizia Gambardella. “La differenza sta nel carico di potenza: per funzionare il nostro cervello ha bisogno di una quantità di energia infinitamente minore di quella necessaria a una macchina”. Per ora. Intanto, rispetto al passato e alla programmazione tradizionale, le macchine sono diventate più intelligenti: “Hanno imparato ad imparare: sanno riconoscere un tumore, distinguono i generi di scrittura, riconoscono le caratteristiche facciali”.

E infatti: nel 2020 The Guardian ha pubblicato A robot wrote this entire article. Are you scared yet, human?. Per farlo, è stato utilizzato GPT3, un software di intelligenza artificiale creato da OpenAI, particolarmente efficiente nella produzione automatica di testi. Due anni prima, Christie’s aveva venduto all’asta per 423.500 dollari Portrait of Edmond Belamy, opera creata dal collettivo Obvious con la tecnica GAN, alimentando il sistema con 15.000 ritratti dal XIV al XX secolo, perché venisse scelto il “riassunto” migliore. “Di cosa siano capaci le macchine, lo sappiamo. Quali siano le loro intenzioni, invece no: secondo la nostra valutazione di umani, a oggi, non ne hanno. È un tema che interessa più i lettori di fantascienza, o chi dibatte sulla differenza tra cervello e mente anche per gli algoritmi: noi scienziati siamo più attratti dalle conseguenze dei vertical, vogliamo addestrare i computer a risolvere un problema a partire dai dati che gli forniamo”.

Inside AI, Supsi, Corso, Luca Gambardella, Lugano

Intelligenza artificiale debole, intelligenza artificiale forte: gli interrogativi che riempivano le ore del filosofo John Searle non turbano quelle di Luca Gambardella. “Ricordiamoci sempre una cosa: non sappiamo neppure come funziona davvero la nostra testa”, dice. Intanto, però, i software di intelligenza artificiale imparano a guardare le cose e a riconoscerle. “Quello che vedono però non è la realtà e nemmeno la sua vera rappresentazione, ma una loro lettura della realtà. E qui sta il punto: è la nostra interpretazione della loro visione che conta. Scopriamo possibilità talmente inaspettate che possiamo considerarle opere d’arte. Opere che la gente può anche decidere di comprare”. Non solo: “La macchina produce un artefatto, siamo d’accordo. Ma se la parte più interessante del processo fosse l’osservazione del funzionamento delle macchina? Se fosse quella, la parte più desiderabile di un’opera?”.

Fate una pausa e chiedetevi: che cos’è, alla fine, che una macchina ci svela? “Che non c’è univocità, ma indeterminismo”.

Proviamo a spiegarla altrimenti: cambiando la fornitura di dati, la macchina si aggiusta nella sua elaborazione. Impara a riconoscere quello che le interessa basandosi su strutture diverse e fornendo più letture possibili, ma come ci arriva è un segreto custodito nella sua scatola nera. “È il contenuto della black box che fa impazzire lo scienziato: dentro la macchina vede un’elaborazione di cui non coglie le regole secondo la logica propria degli esseri umani”. È la forza dell’incoerenza, potremmo dire. “Che ci insegna che non c’è un solo modo di guardare all’universo”.

Illusa Fingo Sogni Fasulli, installazione di Luca Gambardella

Posto che l’intelligenza artificiale non è ancora in grado di generare qualcosa di autentico dal nulla, offre però un nuovo approccio all’esperienza estetica, più partecipativo. “Per il momento l’arte potenziata dalla realtà virtuale e aumentata esalta il gesto umano, un’esperienza immersiva interessante soprattutto in previsione del metaverso. A me interessa, invece, l’intelligenza artificiale rapportata all’arte interattiva: capire, cioè, come una macchina che conosce bene il suo compito si adatti anche alle reazioni dello spettatore. Due opere identiche, poste in contesti differenti, daranno risultati difformi”. Gambardella, che si è già confrontato con Artists in Lab, un altro programma di residenza artistica all’interno dei centri di ricerca svizzeri, ha lavorato con gli studenti dell’Accademia di architettura di Mendrisio a Close the loop.

“L’opera partiva da una base semplice: era una porta si muoveva. La parte difficile è che lo faceva imparando a rispettare i movimenti dei ballerini che aveva di fronte. Come farle capire di continuare o di smettere, senza usare un comando a bottone?”. Chiudere il loop, il circuito, il cerchio, l’intenzione. Quella volta la soluzione non è stata trovata. “La verità? Vorremmo confrontarci con un’intelligenza artificiale che sia prevedibile ma che abbia capacità creative. Un ossimoro. Ma se la macchina vorrà evolversi ed essere accettata dell’uomo, dovrà tenerne conto”. E sarà la sua migliore opera di sempre.

  

Gambardella è il primo ospite di Meet the Media Guru Swiss Edition, ciclo di incontri con personalità dell’innovazione organizzati con il Consolato generale della Svizzera, Meet e Mind per avviare House of Switzerland, sede pop-up allestita alla Casa degli Artisti di Milano.

Immagine in apertura: Neural Rope, installazione di Luca Gambardella e Alex Dorici nel tunnel di Besso, Lugano