Biennale 2022, Alemani: solo l’arte racconta l’attualità in modo innovativo e sorprendente

Che Biennale di Venezia sarà questa, preparata durante due anni di Covid e che inaugura nei giorni della guerra in Ucraina? Ne parla a Domus la curatrice Cecilia Alemani, tra cancel culture, richiami postumani e l’ombra lunga del Surrealismo.

Quando sente che le si augura buongiorno, Cecilia Alemani sa già che c’è una domanda che preme dietro i saluti. È sul senso di una Biennale in un mondo in continua emergenza: “Ci si è detti: finirà tra qualche giorno, e non finisce. Ma non si mette da parte la cultura, nemmeno in momenti come questo, perché non è mai inutile: è l’arte che mantiene il dialogo aperto. È la sua voce che rende possibile la mediazione, che costruisce ponti dove altri li fanno saltare”. Alemani è direttore della 59a Biennale d’Arte, intitolata Il latte dei sogni, che apre a Venezia il 23 aprile. Ha avuto due anni per prepararla: gli anni della pandemia. Inaugura 59 giorni dopo il primo attacco all’Ucraina: i due mesi che hanno messo in discussione la sicurezza dell’intera Europa e l’assetto della sua difesa.

“La Mostra, strutturata ai Giardini con i padiglioni nazionali, era la proiezione delle dinamiche geopolitiche del Novecento: molti pensavano fossero obsoleti, e invece…”. Invece, i padiglioni di Russia e Ucraina resteranno chiusi – la Russia per la rinuncia degli stessi curatori, contrari alla guerra, l’Ucraina per l’impossibilità di lavorare in sicurezza – mentre saranno presenti per la prima volta Kazakhstan, Kyrgyzstan e Uzbekistan.

Candice Lin, Seeping, Rotting, Resting, Weeping, exhibition view from Walker Art Center, Minneapolis, 2021. Courtesy the Artist; François Ghebaly Gallery
Candice Lin, Seeping, Rotting, Resting, Weeping, exhibition view from Walker Art Center, Minneapolis, 2021. Courtesy the Artist; François Ghebaly Gallery

“Non so se a documenta siano in corso le stesse discussioni, ma non credo, perciò il senso finale di questa Biennale è proprio nella sua attualità: l’idea che ci sia un uomo che può decidere di invadere una democrazia nel Paese accanto al suo, e che lo possa fare dalla sua hýbris, è proprio quanto la Mostra cerca di contestare”. Di spazio per la cancel culture, comunque, non ce n’è: “Vivo e lavoro in America, dove quel genere di censura non conosce le mezze tinte, perciò preferisco essere molto cauta sull’argomento. Posso fare tre considerazioni: che siamo nel vivo dei fatti ed è difficilissimo prendere decisioni; che cancellare persone e storie non guarisce nulla, tantomeno il presente; che una volta creata una distanza, una zona d’ombra in cui ignorare i Dostoevskij, sarà difficilissimo riprendere le fila in futuro. Fatta così, la cancel culture non giova davvero a nessuno”.

Ecco dunque i tre temi cardine della Biennale: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra.

Intanto Alemani ha fatto le sue scelte. 213 gli artisti presenti: per 180 di loro è la prima volta a Venezia. Molti i partecipanti non binari, moltissime (la maggioranza) le donne. 1.550 opere, 80 nuove produzioni. Due Leoni d’Oro alla carriera, assegnati pari merito alla tedesca Katharina Fritsch e alla cilena Cecilia Vicuña. Cinque cosiddette “capsule del tempo”, esposizioni tematiche che tessono costellazioni nei percorsi della Mostra. “Mi sono confrontata con un’umanità in divenire, perché colta in un periodo di crisi e trasformazione. Perciò sono ripartita dai miei studi filosofici per capire come potevano farci da specchio, aiutarci a leggere gli eventi recenti e quelli prossimi. È stato un processo: l’idea sulla metamorfosi iniziale si è ampliata: giocoforza, mantenendo però la visione degli artisti come riferimento di partenza”. 

Il latte dei sogni,  dal libro di fiabe di Leonora Carrington (tra gli artisti di Surrealismo e magia. La modernità incantata, in mostra alla Collezione Peggy Guggenheim), prende avvio da una serie di interrogativi: come sta cambiando la definizione di umano, innanzitutto, che cosa separa l’animale dal vegetale e l’umano dal non umano, che responsabilità abbiamo verso le altre forme di vita e verso il pianeta. E, domanda finale: come sarebbe la vita nel post-umano? “Ho letto e mi sono rifatta a Rosi Braidotti, Marina Warner, Donna Haraway, studiose molto attente alla realtà e alle trasformazioni che la attraversano”. Ecco dunque i tre temi cardine della Biennale: la rappresentazione dei corpi e le loro metamorfosi; la relazione tra gli individui e le tecnologie; i legami che si intrecciano tra i corpi e la terra.

Alexandra Pirici, Aggregate, 2017–2019. Photo Andrei Dinu. Courtesy the Artist. © Alexandra Pirici
Alexandra Pirici, Aggregate, 2017–2019. Photo Andrei Dinu. Courtesy the Artist. © Alexandra Pirici

“Se dico interceptional, ha senso in italiano?”. Intende un approccio interdisciplinare, capace di intercettare più temi, dalle migrazioni ai cambiamenti climatici. Quindi sì, ha un senso. Anche pensando a quanto può essere mancato il contatto fisico diretto con gli artisti nella preparazione della Biennale. Un limite? “In parte. Penso ai miei colleghi del Cinema, del Teatro, della Danza. Un film è trasportabile, poco importa se lo vedi a casa. Altra cosa, per me, è stato non poter viaggiare, non trovarmi davanti a un quadro, non sentire nel naso gli odori, non poter girare intorno a una scultura. Insomma ho visto moltissima arte, ma pochissima di persona. Però ho sperimentato qualcosa di inedito: tutte quelle studio visit – centinaia, via zoom – hanno dato accesso a conversazioni che non avrei mai avuto in tempi normali. Dense, cariche di intimità: hanno affrontato tematiche molto più introspettive, quasi confessionali, che non avrei toccato in un incontro dal vivo”.

Ad esempio? “È stata una lunghissima riflessione sull’identità: ci siamo chiesti che cosa separi l’essere umano dalle altre forme di vita, e lo abbiamo fatto mentre l’umanità si trovava messa in un angolo da un virus, una forza microscopica che ha mostrato i limiti del nostro sapere”, spiega. “Dov’era, in quei giorni, la speranza nella scienza e nell’invenzione? Saremo capaci di immaginare nuove forme di coesistenza? È una pratica che non si limita agli aspetti teorici: è finito il tempo in cui potevamo sentirci al vertice della piramide dell’evoluzione, è il momento di praticare il rispetto”. Facendo tesoro, forse, delle lezioni del passato. Ma la memoria non è mai scolpita nella pietra, immutabile. È viva e, talvolta, imprevedibile.

Cecilia Alemani. Foto Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia
Cecilia Alemani. Foto Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

Potesse aggiungere una nuova capsula alla serie realizzata con Formafantasma, a cosa la dedicherebbe? “L’arte è sempre stata il megafono di situazioni complesse, come quelle belliche: penso al Surrealismo, movimento che guardava all’inconscio ma che nasceva dalle ceneri della Prima guerra mondiale senza sapere che ne sarebbe seguita presto una Seconda. Era antitotalitario e antimilitarista. Come, immagino, gli artisti di questa 59esima Biennale: sarebbe interessante, allora, mostrare come viene elaborato nella loro mente un conflitto”. 

È utile pensare in anticipo all’imprevedibilità degli eventi? E come si procede quando non si può ignorare cosa sta succedendo? “Pregando tantissimo?», si chiede a sua volta Cecilia Alemani. “Il vantaggio, per me, è potermi confrontare con gli artisti, i soli capaci di assimilare i fatti e di restituirli in tempo reale, ma in modo innovativo e sorprendente. Sono loro le guide del mondo, specie quando il dramma è ancora in atto. Che sia questa, la condizione post-umana?”.

Immagine in apertura: Cecilia Alemani. Foto Andrea Avezzù. Courtesy La Biennale di Venezia

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