Tra analogico e digitale, in galleria come in concessionaria: l’arte di Matteo Pizzolante

In occasione dell’annuncio dei finalisti di JaguArt, abbiamo intervistato il vincitore della tappa di Milano. Che parla del suo approccio all’arte, ma anche di come il premio vinto l’abbia messo davanti a nuove sfide.

JaguArt è una iniziativa un po’ road show, un po’ talent – nel senso più nobile del termine – che vede collaborare insieme Artissima e Jaguar Land Rover per un progetto, avviato l’anno scorso ora al giro di boa, con l’annuncio dei dieci finalisti, pensato per dare visibilità a giovani talenti dell’arte contemporanea provenienti da tutta Italia e ad altrettante gallerie. “La collaborazione con Jaguar è per noi fonte di grandi soddisfazioni, non solo per la natura del progetto che punta a sostenere 10 giovani artisti in 10 città italiane con il supporto di 10 gallerie d’eccellenza, ma per l’essere riusciti, nonostante la pandemia, a lavorare insieme adattandoci al contesto”, spiega Ilaria Bonacossa, direttrice della fiera torinese. “Penso che l’arte, e in particolare l’arte contemporanea, sia entrata nell’immaginario collettivo come qualcosa di interessante e di godibile. JaguArt ha dato modo anche ad Artissima, per sua natura aperta alla ricerca e all’innovazione, di sperimentare nuove modalità di promozione di giovani artisti”, e sperimentare uno spazio espositivo inedito: la concessionaria, che Bonacossa definisce come “monumentale e moderna, simili ai white cube delle gallerie d’arte nelle grandi metropoli”, e che ben si presta ad accogliere l’arte contemporanea, concludendo che “far dialogare il lavoro di 5 giovani artisti con oggetti di perfetto design funzionale, altamente seducenti come le auto Jaguar, è stata una sfida”.

Matteo Pizzolante, Silent Sun series, cianotipia su lastra di cartongesso, gesso, 2020. Courtesy of Matteo Pizzolante

“Il suo lavoro mi appassiona”, dice Bonacossa parlando di Matteo Pizzolante, classe 1989, primo artista a salire sul podio di JaguArt con Silent Sun, una serie di immagini stampate in cianotipia su pvc trasparente adagiate su supporti metallici. False fotografie che riproducono più o meno fedelmente situazioni ricostruite dall’artista attraverso i propri ricordi ed elaborate attraverso un crocevia di tecniche analogiche e digitali. “Vedo nella sua capacità di combinare il virtuale con l’analogico, ricostruzioni digitali con memorie personali, una metafora puntuale della nostra esperienza attuale”, prosegue Bonacossa. “Le sue ‘non fotografie’ sono misteriose e al contempo seducenti per come articolano spazi impossibili ma pur sempre reali”. 

La presentazione dei finalisti 2020 è stata anche l’occasione per incontrare Matteo Pizzolante per una conversazione, che è partita dal suo particolare approccio e da come viene realizzato. La prima fase del lavoro consiste dalla ricostruzione 3D di luoghi in cui sono stato nel passato: ricordando com’erano li ricostruisco completamente realizzando dei render”, racconta l’artista. “Da questo progetto prendo alcune viste e le stampo con la tecnica analogica della cianotipia. Dal lavoro di ricostruzione digitale degli spazi stampo i negativi e i negativi li uso per stampare le immagini. La cosa interessante che ho iniziato a fare da poco è stampare direttamente su cartongesso”. 

E questo come lega la tua opera allo spazio?
Stampando immagini molto grandi direttamente su cartongesso, le opere entrano a far parte dello spazio. Sto riflettendo molto su questo aspetto nell’ultimo periodo: ho pensato che mi piacerebbe lavorare affiancandomi a un architetto. Mentre un architetto progetta spazi più o meno neutri che andranno ad essere riempiti dalle persone, il mio è un processo inverso, le immagini hanno già il loro vissuto. Si tratterebbe di pensare lo spazio in base alle immagini, quindi ribaltando la consueta modalità di progettazione. 

Matteo Pizzolante

La complessità di tutti questi passaggi tra analogico e digitale nella realizzazione dell’opera cosa ti restituisce?
Il punto di partenza per me è lavorare con il digitale ma dandogli poi una formalizzazione fisica, una presenza. L’ibridazione tra il digitale e l’analogico crea queste immagini che sono proiezioni mentali, evanescenti. Però allo stesso tempo hanno una presenza fisica, fanno parte dello spazio. E poi, il software che uso viene impiegato solitamente per mostrare come saranno degli ambienti, mentre io faccio il contrario, andando a ricostruire ciò che è stato. L’idea di stampare su cartongesso ora chiude il cerchio: si stampano degli spazi su qualcosa che diventerà spazio di per sé.

Quali software utilizzi per progettare?
3D Studio Max, Autocad e tutti programmi 3D usati nell’ambito della modellazione dell’architettura.

È cambiato il tuo concetto di memoria-intimità (costantemente presente nella tua ricerca) dopo le vicissitudini di quest’anno?
Non molto, poiché si tratta di tematiche sempre valide. Dal punto di vista pratico, invece, ho affrontato molto di più interviste e articoli, e mi sono trovato a riflettere su quello che facevo scrivendo del mio lavoro. È stato utile perché avevo più tempo per lavorare, meno ansia di produrre per esporre in mostre, mi è servito come momento introspettivo. Non è cambiata tanto la mia ricerca quanto il tempo e il modo con cui mi ci sono dedicato. Inoltre, sono felice di aver trovato un nuovo studio: essendo tutto rallentato, ora è il momento perfetto per lavorare.

Cosa significa vincere un premio rilevante come quello di Jaguart in un momento come questo? 
Rispetto agli altri partecipanti forse sono stato fortunato, la mia tappa è stata portata a termine. Il progetto ha avuto molta risonanza mediatica; gli organizzatori di JaguArt hanno fatto un ottimo lavoro sotto il punto di vista della comunicazione e hanno fatto tutto il possibile per rendere visibile la mostra. Ho ricevuto molta visibilità, i riscontri ci sono stati comunque.

Com’è andato il lavoro nell’anno del Covid?
Personalmente non ho visto un calo, né di lavoro né di iniziative in cui farsi coinvolgere. L’unica differenza rilevante è che si vende di meno. Però è stato anche un cambiamento significativo, prima c’era una saturazione di mostre e eventi. Ora c’è meno quantità e forse più qualità. È questa l’impressione che ho avuto: ho visto meno cose ma quello che ho visto me lo sono goduto di più.

Matteo Pizzolante, Noli Me Tangere III. Tessuto, alluminio, acciaio, 2020

Sei un giovane artista italiano. Come descriveresti la situazione di chi è nella tua posizione, oggi?
È una questione complessa. Per quanto riguarda le gallerie, è difficile che al momento abbiano la possibilità di aprirsi ad altre collaborazioni, probabilmente continueranno a lavorare con gli artisti hanno già in scuderia. Dal punto di vista pratico, gli artisti in Italia fanno sempre fatica a farsi riconoscere anche sotto il profilo legale, ulteriore causa di difficoltà. D’altra parte, questo momento può essere utile per cercare nuove vie e nuove opportunità di lavoro. La pandemia è stata anche un modo per reinventarsi e cercare nuove modalità per esporre la propria opera, per non sparire, in attesa che la situazione torni a un livello minimo di normalità.

Matteo Pizzolante, Noli Me Tangere III

Faresti entrare l’arte all’interno delle concessionarie, come spazi espositivi?
Le concessionarie sono in realtà spazi difficili. Le macchine hanno una loro presenza molto forte. Però, d’altra parte, dietro questo tipo di realtà c’è un mondo di tecnica e alta intelligenza applicata al progetto che rimanda in parte al mio ambito di interesse, e per questo mi affascina enormemente. 

I dieci finalisti di Jaguart sono: Matteo Pizzolante, vincitore della tappa di Milano, Luca Arboccò (Torino), Francesco Tagliavia (Catania), Camilla Gurgone (Roma), Boris Contarin (Venezia), Stefano Giuri (Firenze), Marco-Augusto Basso (Genova), Teresa Gargiulo (Napoli), Camilla Riscassi (Bologna) e Federica Francesconi (Brescia).

Immagine di apertura: Matteo Pizzolante, Silent sun. Tutte le immagini delle opere: courtesy of Matteo Pizzolante.

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