Oriente, immagine dell’altro

Nella cultura europea l'Oriente è sempre stato l’Altro, uno specchio che ci diceva chi eravamo. Soprattutto con la pittura dell'Ottocento, dove dal Medio Oriente al Giappone fascinazioni, richiami e influenze rivelano ancora oggi arcane verità.

L’oriente. L’altro, il diverso. Continente così discusso, criticato, affamato, ricercato, dove la globalizzazione economica ha fondato le sue radici. Il continente dei nuovi ricchi, della produzione, il continente della pandemia.  

Arte e letteratura occidentali hanno raffigurato l’Oriente attraverso stereotipi e immagini romanzate lontane dalla realtà, dando così vita a un filone artistico denominato Orientalismo.  

Questo termine, nella fortunata formulazione di Edward Said, nell’omonimo saggio del 1978, indica il modo in cui la cultura europea ha conosciuto l’Oriente, cercando di dominarlo, prima di tutto, a partire dalla capacità di determinare la sua immagine e i discorsi su di esso.

Questo continente ha sempre occupato un posto speciale nella cultura europea, specialmente nella pittura. Gli echi della spedizione di Napoleone in Egitto, i resoconti di esploratori, faccendieri audaci, avevano infiammato la fantasia del vecchio continente. Le cronache di piaceri proibiti, di odalische, harem e hammam avevano fatto il resto. Poi c’era la voglia di saperne di più, di scoprire e capire terre geograficamente non tra le più distanti, come quelle mediorientali, eppure lontane per cultura, storia e atmosfere. Una mania che stregò molti artisti, alimentata da committenti altrettanto presi dal fascino di un Oriente vicino e, allo stesso tempo, lontanissimo. Francesco Hayez, Ippolito Caffi, Pompeo Mariani, Domenico Morelli,Francesco Netti e il più noto Vincent Van Gogh, che in una lettera, indirizzata al fratello Theo scrive: “Vedi, amiamo l’arte giapponese, ne siamo influenzati […] tutti gli impressionisti condividono questa passione”. Del resto, artisti giapponesi come Utamaro e Hiroshige erano percepiti come contemporanei, essendo entrambi morti agli inizi dell’Ottocento. Nel 1880 a Parigi si contavano circa trentasei negozi di cineserie e di oggetti d’arte giapponesi, frequentati da artisti che desideravano attingere a piene mani a quel repertorio totalmente nuovo ed affascinante.

Vincent van Gogh, Père Tanguy, 1887, Musée Rodin, Parigi

Completamente sedotti, pittori di ogni nazionalità cominciarono a riversare nelle loro opere quel ricco repertorio iconografico, piegandolo al proprio stile e rielaborandolo secondo il loro modo di fare arte. Le cromie si fecero più spregiudicate e libere, rese da pennellate brevi e intrise di colore puro. Architetture mai viste e spazi ancora poco contemplati divennero soggetti di opere che ospitavano donne bellissime adornate con vesti dai colori ricchi e cangianti, questi artisti ricercavano l’oriente con un’insaziabile curiosità che però difficilmente li spinse al viaggio in quei luoghi. I colori li travolsero, le forme insolite degli abiti e delle acconciature, di quelle donne così diverse e spregiudicate nella loro pudicizia, li catturarono rendendoli quasi assetati di oriente. 

Francesco Netti, letterato e pittore italiano, dipinse nella seconda metà del secolo XIX la sua Odalisca. Capelli neri, raccolti ed intrecciati tra ricchi fermagli, scoprono il profilo ed il corpo di una donna che, con estrema dolcezza e noncuranza dello spettatore, si mostra tra ricchi tessuti e ricami sfarzosi, tipici della manifattura mediorientale, così come gli arredi: il comodino, il letto, e le decorazioni che cadono dall’alto al retro della scena, tutto in un perfetto ordine mediorientale. Diversa è invece l’influenza che queste terre ebbero su Van Gogh, egli si spinse ancora più ad est e il Giappone fu il suo desiderio. Nel  ritratto di Père Tanguy, un vecchio commerciante di colori, l’artista ricrea un fondale che racconta quei luoghi in maniera perfetta. Raffigurato seduto, braccia incrociate sul ventre, indossa un cappello e una giacca a doppio petto. Il suo sguardo un po’ smarrito racconta la bontà d’animo e l’affetto che l’artista nutre nei suoi confronti. La vivacità delle cromie è resa con pennellate energiche e vibranti, lontane dallo stile impressionista e più vicine alle stampe di Hiroshige da cui prende a prestito Il ponte sotto la pioggia, una stampa su carta raffigurante un ponticello che attraversa un fiume. Nella versione originale, l’acqua  è resa con campiture di colore piatte che, solo in basso, si fanno più scure, a suggerire l’ombra che si addensa sotto la costruzione in legno. La fitta pioggia è resa da linee verticali che sembrano quasi torturare, come lance o spade,  le figure che attraversano il ponte. Van Gogh, pur restando, in linea generale, fedele al modello, apporta alcune sostanziali modifiche che ci permettono di cogliere la sua personale interpretazione. Le pennellate rendono la scena più vibrante, trasformando le placide acque dell’originale in un fiume dalle acque impetuose.“Amo i dipinti giapponesi” scriveva l’artista in una delle sue lettere.

Iris e giardini, alberi di ciliegio, donne dagli abiti variopinti, barche sull’acqua, geishe, odalische e ritratti di personaggi storici, come Cleopatra, impreziosite da dettagli minuziosi e, su tutto, la straordinaria potenza del colore. La delicata poesia dell’universo Orientale in tutte le sue differenze e culture. Edward Said si domanda, con una strabiliante lungimiranza al riguardo: “Si può dividere la realtà umana, che sembra in effetti di per sé divisa, in culture, eredità storiche, tradizioni, sistemi sociali e perfino razze diverse, e salvare la propria umanità dalle conseguenze?”

Immagine di apertura: Francesco Netti, Odalisca, 1884

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