The Florida Project: la periferia del sogno nel nuovo film di Sean Baker

Radicale quasi come il precedente Tangerine, il nuovo lavoro di Sean Baker racconta del sogno americano: opportunità, libertà e aspirazione al successo incarnati da Disney World, resort e centri commerciali.

Florida project

Un elemento paesaggistico ricorrente delle periferie est-europee sono gli enormi tristissimi casermoni squadrati in cemento di epoca sovietica “ripittati” con un maldestro tentativo a sgargianti patchwork arcobaleno che li fanno piuttosto somigliare a cadaveri imbellettati. Una simile impressione potrebbe cogliere i visitatori di Disney World a Orlando, Florida se facessero caso all’urbanistica affacciata sui viali di accesso al parco divertimenti. Lo sprawl di motel fatiscenti viola e turchese dai nomi distopici come The magic castle o The futureland, quartieri color pastello abbandonati e mall sovradimensionati, non luogo al quadrato perché satellite di un centro che è non luogo a sua volta, è l’ambiente dove si svolge The Florida Project, firmato Sean Baker. Se il precedente Tangerine, colpì per l’oltranzismo formale (si tratta del primo film girato interamente con un iPhone e distribuito nelle sale) e contenutistico (tutti i ruoli principali sono interpretati da persone transessuali) oltre che per l’intelligenza della sceneggiatura e portò il suo autore all’attenzione della critica, The Florida Project non è meno radicale pur somigliando di più a un film consueto.


I distributori italiani sono soliti prendersi alcune libertà e hanno reso il titolo originale con Un sogno chiamato Florida. Se si può storcere il naso di fronte alla libertà creativa, in realtà accostare i due titoli ci aiuta a determinare i poli tra i quali si muove il film. Il sogno è chiaramente quello americano, l’ideologia a base di opportunità, libertà e aspirazione al successo e a una realizzazione bigger than life incarnato da Disney World e dallo spettacolo di abbondanza di resort e centri commerciali. Il progetto, anche urbanistico, invece racconta una storia di emarginazione. Nei motel di second'ordine sono parcheggiati a tempo indeterminato i reietti dell’American dream: ci sono veterani, ex galeotti, pazzi, immigrati cubani sottoccupati nelle cattedrali del sogno e ragazze madri allo sbando. L’economia che regge il microcosmo è di pura sussistenza: vivono di prostituzione, sussidi e piccole truffe ai ricchi turisti (che non dovrebbero vederli: c’è una sola legge da non infrangere, perché distruggerebbe il sogno, ed è “you can’t fuck with tourists”) in una condizione passivo-aggressivo indotta perpetua. Passano il tempo guardando la TV o guardano quello che accade (un incendio, il passaggio di elicotteri, i fuochi d’artificio) come fosse la TV.

Date le premesse potremmo parlare di una tranche de vie animato dai migliori sentimenti filantropici eppure pietistico e manierato. Invece The Florida Project è tutt’altro perché il suo specifico filmico è tarato su Moonee, Scooty, Jancey e Dicky i quali ribaltano la stasi esistenziale degli adulti nell’ipercinetismo. Per tutto il film i quattro bambini vagano, corrono, esplorano e trasformano con il loro sguardo il non luogo in un luogo magico e il milieu degradato dove stanno crescendo in un campo di avventure possibili dove si può improvvisare un safari se ci sono mucche al pascolo. Il rovesciamento dello spazio, che dovrebbe essere claustrofobico, squallido e asfissiante, in un suo doppio magico è veicolato attraverso grandangoli e camere a mano e ad altezza bambino. Lo straniamento è amplificato da una combinazione di distorsione e pedinamento, oltre che dalle dominanti cromatiche acide date dal colore dei muri. Il realismo è costantemente scalzato dall’escapismo – letteralmente nel finale girato, pare, di nascosto e senza permessi dentro la stessa Disney World.

The Florida Project, la locandina del film
The Florida Project, la locandina del film

C’è infine un personaggio fondamentale: il manager Bobby, magistralmente interpretato da Willem Dafoe. Bobby rappresenta la figura del “guardiano” tratteggiata da un altro grande outsider americano, William S. Burroughs. Proteggere gli ibridi e i mutanti nel vulnerabile stadio dell'infanzia, scrive Burroughs, è proprio la funzione del Guardiano. Se tutti – gli adulti più di chi ne avrebbe anagraficamente diritto – si comportano come bambini nel Magic Castle Motel, Bobby ha il compito solitario e non riconosciuto di intercedere, proteggere, guidare e tenere fisicamente insieme il motel e le vite dei suoi affittuari. Bobby è il caretaker, colui che si prende cura, che sceglie di dedicare la propria opera all'altro da sé in aperta contrapposizione al darwinismo spietato aynrandiano che innerva il sogno e muove le azioni di quelli che ne sono abbagliati. È l’(anti)eroe del film, uno dei 36 Lamed-Vav Tzadikim, i “giusti nascosti” che reggono segretamente la struttura morale del mondo secondo il Talmud. In questo senso la continua manutenzione della struttura fatiscente è un chiaro correlativo oggettivo. È un correlativo oggettivo e, in un certo senso, anche una retribuzione lo straordinario momento epifanico in cui tre meravigliose gru planano sul viale d'accesso e lui, da caretaker, le accompagna più lontano perché non vengano investite. Ricorda, curiosamente, la scena di un film lontanissimo per geografia e stile: Il sole di Aleksandr Sokurov. In quel caso era l’imperatore Hirohito, ostaggio nel suo palazzo di rozzi soldati yankee, a rispecchiare la sua grazia e fragilità in una gru incontrata su un viale.

Il cinema americano è stato rigenerato, nell'ultimo decennio, dal nuovo cinema indipendente di autori come Jeff Nichols, Debra Granik, Derek Cianfrance e Taylor Sheridan che hanno portato le loro macchine da presa lontano dalle coste, negli stati centrali snobbati da Hollywood e dalle avanguardie newyorkesi, per raccontare storie marginali finora considerate poco appetibili con un taglio asciutto, classico, documentaristico, quasi springsteeniano. Sean Baker continua l’esplorazione e la mappatura dell’America esclusa dal sogno aggiornando l’estetica all’era millenial. È nato un autore.

Titolo film:
The Florida Project
Regista:
Sean Baker
Sceneggiatura:
Sean Baker, Chris Bergoch
Musica:
Lorne Balfe
Production company:
Cre Film, Freestyle Picture Company, Cinereach, June Pictures

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