Milano. Il mondo capovolto di Wertenbroek e Shahbazi

All’Istituto Svizzero di Milano, gli specchi infranti di Manon Wertenbroek e le pitture murali di Shirana Shahbazi dialogano tra loro e disorientano lo spettatore.

Manon Wertenbroek Shirana Shahbazi

L’effetto è tutt’altro che architetturale, si direbbe destrutturante – esagerando un pochino, disorientante. Sulle pareti, chiazzate di pittura, va in scena il disfacimento delle forme, per via della presenza di un certo materiale termoplastico riflettente, sulla cui superficie le immagini si creano e subito si rompono. Tutto prende ad arrovesciarsi, va detto, senza grandi giramenti di testa. C’è qui più la suggestione che la messa in atto di allentare certe restrizioni spaziali o proprie della visione. Idea che ha mosso Manon Wertenbroek (nata a Losanna nel 1991, oggi vive a Parigi) a realizzare questa mostra – intitolata appunto “Capovolto”, e che vede partecipe con pitture murali e due stampe cromogeniche anche Shirana Shahbazi (nata a Teheran nel 1974, oggi vive a Zurigo) – per la sede milanese dell’Istituto Svizzero, in via del Vecchio Politecnico (quello sì luogo votato all’architettura senza disorientamenti).

Wertenbroek e Shahbazi sono entrambe fotografe, anche se il termine va loro stretto come un maglione infeltrito per i troppi risciacqui. La prima ha il gusto per il ritratto – per tutto ciò che ha a che fare con l’affezione, l’emotività, le interazioni fra gli individui. La seconda, artista navigata, percorre le acque sicure dei generi classici della storia dell’arte – ritratto, natura morta, paesaggio – misurandosi spesso su scala architettonica. In entrambe, i richiami alla tradizione pittorica occidentale si rincorrono, senza necessariamente rivelarsi. L’uso del colore è seducente, spregiudicato; il linguaggio è mutuato dalla fotografia commerciale (cura maniacale del dettaglio, modelli dal make-up e outfit perfetti, luci soffuse da studio) e c’è sempre il dubbio che ciò che vediamo non sia davvero ciò che vediamo.

In Wertenbroek e Shahbazi i richiami alla tradizione pittorica occidentale si rincorrono, senza necessariamente rivelarsi. L’uso del colore è seducente, spregiudicato.

Nell’opera delle due, il mezzo fotografico viene come strattonato, fiaccato nelle sue limitazioni. L’astrazione irrompe sulla rappresentazione, senza che questo comporti il dopaggio della manipolazione digitale. Wertenbroek, per esempio, cala il suo modello – prendiamo il fratello nella foto Tandem Noir del 2014 (prima opera compiuta dell’artista) – in un set di ritagli di carta colorata e fogli di plastica sagomati: una messa in scena che richiede molte ore di maneggio e che precede lo scatto, anziché seguirlo, come avviene oggi con Photoshop o come una volta avveniva quando con il lapis si aggiungevano, per scherzo, barba e baffi alle fotografie. Così Shahbazi fotografa, alternativamente, volumi e superfici dipinte, organico e artificiale, naturale e costruito, mettendo tutto quanto sullo stesso piano.

Appese all’ingresso dell’Istituto Svizzero, le sue due grandi stampe Raum Rot e Raum Blau (“stanza rossa” e “stanza blu”, 2017) danno l’impressione di essere due angoli di una stanza appunto, o forse due visioni speculari di uno stesso angolo. “In realtà sono specchi appoggiati che formano una composizione piuttosto piccola”, dice Shahbazi, disegnando nell’aria un cubo grosso come una scatola. Indossa un paio di collant color vinaccia (l’esatta mescolanza del blu e del rosso delle stampe), e quando le chiedo quale è la prima immagine di cui ha memoria, ci pensa su e, alzando gli occhi al muro che ha di fronte, e che nei giorni precedenti ha tutto spruzzato di pittura adoperando un idrante, mi risponde “la parete del soggiorno della mia casa d’infanzia, con sopra le piccole creazioni infantili che mia madre amava appendere”.

Nel caso di Wertenbroek la mutualità che si genera è fra il guardare e il guardarsi. Davanti a questi specchi infranti ci si sorprende a osservarsi le orbite deformarsi, mentre altre figure spettrali vengono a galla.

Avvicinando il naso ai lavori di Wertenbroek – quattro lamine specchianti in PVC (Courtly Love, Amaryllis, Mixed Feelings Melody e Dewdrops, tutte 2018), variamente lavorate e grandi tanto da comprendere una figura dalla testa all’ombelico – se ne ricava un’immagine di sé sfracellata. In pratica, Wertenbroek prende a incidere una lastra in PVC e, una volta terminato il disegno (che ha a che fare, nei casi sopracitati, con l’amore cortese o con un fiore al profumo di vaniglia o con la rugiada) la fotografa. Stampa poi la foto su di un nuovo foglio in PVC, lo serigrafa con colori che rimandano a ossidazioni metalliche (nero per l’argento, turchese per il rame, giallo-verde per il bronzo) e, di nuovo, lavora di cesello. “In epoca etrusca”, mi dice, “gli specchi da cosmesi venivano bulinati sul retro con scene mitologiche o di toelette. Questi lavori nascono proprio dall’idea di far collassare le due facce dello specchio”.

L’idea, cioè, della mutualità del guardare e dell’essere guardati. Come avviene, per esempio, fra l’immagine sacra e chi la adora, quando la prima viene infilata negli specchi da camera, una pratica contadina diffusa. Nel caso di Wertenbroek, la mutualità che si genera è fra il guardare e il guardarsi. Senza tirare troppo in ballo Lacan o lo Shintoismo. Davanti a questi specchi infranti, ci si sorprende, piuttosto, a fare smorfie e a osservarsi le orbite deformarsi, mentre altre figure spettrali vengono a galla. Chiedo a Wertenbroek qual è la prima esperienza che ricorda legata alla fotografia, lei non ha tentennamenti: “Da bambina, quando provavo a fotografare il fantasma che viveva nella doccia di casa”.

Titolo mostra:
“Capovolto”, Manon Wertenbroek e Shirana Shahbazi
Date di apertura:
7 febbraio – 17 marzo 2018
Sede:
Istituto Svizzero di Milano
Indirizzo:
via del Vecchio Politecnico 3, Milano

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