Non-Aligned Modernity

La mostra al FM Centro per l’arte contemporanea di Milano ricostruisce il passaggio avvenuto nell’Est europeo dall’astrazione come fenomeno di rottura a linguaggio ufficiale dell’arte tra gli anni ’50 e ’80.

Non-Aligned Modernity, FM 2016. Gorgona Group, Gorgona is Looking at the Sky, 1961, Marinko Sudac Collection
Anche se la Jugoslavia è stata la prima realtà del Blocco Sovietico a far guadagnare all’astrazione modernista uno status quasi ufficiale durante un clima culturale dominato dal Realismo socialista, l’Est Europa ridisegnato dalla mostra “Non Aligned Modernity”, con le opere e gli archivi della collezione di Marinko Sudac, curata da Marco Scotini in collaborazione con Andris Brinkmanis e Lorenzo Paini, è una geografia culturale ampia e dai contorni indefiniti.
Non-Aligned Modernity, FM 2016. Ivan Picelj, Untitled, 1952; oil on canvas, 647 x 807 mm. Marinko Sudac Collection
Non-Aligned Modernity, FM 2016. In apertura: Gorgona Group, Gorgona is Looking at the Sky, 1961, Marinko Sudac Collection. Qui sopra: Ivan Picelj, Untitled, 1952; olio su tela, 647 x 807 mm. Marinko Sudac Collection
Un network rizomatico che si espandeva a Est e a Ovest della Cortina di Ferro in cui spesso gli artisti operavano attraverso poster mobili e mail-art attivando reti e spazi relazionali divenuti oggi dominanti nella nostra vita quotidiana, come NET, di Andrzej Kostołowski e Jarosław Kozłowski (1971); la Chapel Gallery (Ungheria, 1970–1973) di György Galántai e Laszlo Beke, che produsse l’incontro fra artisti ungheresi e cecoslovacchi che sfocerà nell’azione Handshake (1972) contro l’invasione del 1969; gli anti-happening fotografici U.F.O.-naut (Universal Cultural Futurological Operations) di Július Koller (Piestany 1939 – Bratislava, 2007), che in piena corsa allo spazio ritrasse il suo odierno avatar, U.F.O.-nauta, intento a stabilire un contatto con gli “altri al di fuori della realtà cecoslovacca”, fino a fondare sul punto più alto degli Alti Tatra la U.F.O.-Gallery Ganek (1971–1989), uno spazio che condivideva con artisti come Stano Filko, Alex Mlynarík e Rudolf Sikora con i quali realizzava opere collettive.

 

Il percorso espositivo ricostruisce il passaggio avvenuto nell’Est europeo dall’astrazione come fenomeno di rottura a linguaggio ufficiale dell’arte, il cui punto di partenza è segnato da una gigantografia del Monumento di Petrova Gora (1970, 1981) dello scultore Vojin Bakić (Bjelovar 1915–Zagreb 1992), dedicato alla rivolta delle popolazioni di Kordun e Banija, riconosciuto e premiato da Tito, che, come la Torre di Tatlin della Terza Internazionale, proietta il visitatore verso il futuro e riafferma “lo spirito utopico della comunità antifascista che si riunisce e realizza gli eventi della storia jugoslava”, ma che alla struttura piramidale edificata dall’uomo sostituisce una grande forma astratta rivestita di acciaio inossidabile che riflette e riverbera la luce sulla punta più alta del monte dove nel 1942 i partigiani serbi e croati combatterono insieme.

Esponendo più di 700 opere di circa 120 artisti, la mostra evidenzia la vastità e l’importanza della sperimentazione artistica dell’Est come parte integrante della Neoavanguardia europea, che oltre al superamento dei confini dei medium artistici ha prodotto forme innovative e radicali di critica dello Stato, come nel caso di Antun Motika (Pula 1902–Zagreb 1992). In continuità con il lavoro sulla natura inarchiviabile degli anni Settanta italiani che ha inaugurato l’apertura di FM lo scorso aprile, la vivacità e l’eterogeneità della scena artistica dell’Est e del Centro Europa sono riprodotte come non assimilabili né dalle forme ideologiche del Blocco Sovietico né dal liberalismo occidentale.
In tal senso l’Est europeo come territorio interstiziale, la cui precarietà unitaria non era originata da una crisi economica ma dall’appartenenza a etnie diverse, viene ridefinito dal collettivo Gorgona (Zagabria, 1959–1966/68) attraverso azioni come tour urbani e rurali e sessioni fotografiche, in cui sia i membri che gli esterni al gruppo che assumevano un “comportamento Gorgonico” si configuravano come parte di un’unica comunità immateriale.
Un terreno aporetico, su cui da un lato si ricostruiva e si legittimava una nuova immagine della “nazione” nei padiglioni iugoslavi negli eventi fieristici locali e internazionali e nelle inedite esposizioni pubbliche del collettivo pionieristico croato Exat 51 (Società degli architetti di Zagabria nel 1953, Denise René Gallery a Parigi nel 1959, Tate Gallery di Londra nel 1961 e 34esima Biennale di Venezia del 1968) il cui linguaggio era la sintesi di “ognuna delle arti pure” di ispirazione costruttivista e Bauhaus (Linee di Aleksandar Srnec, 1952); e dall’altro si ponevano le basi per la “geocultura” della Family from Šempas di Marko Pogačnik (Slovenia, 1971), per la creazione di una nuova cultura attorno a Gaia come centro sacro dell’Universo terrestre (Earthly Universe) attraverso l’”Agopuntura della Terra” (Earth Healing), i cui strumenti principali sono tuttora il “linguaggio di cosmogrammi” (Language of cosmograms) e l’olismo scientifico della Geomantica (“Geomancy”).
In un momento storico in cui nuove e rinnovate configurazioni dell’universalismo sono veicolate dall’utilizzo massivo delle nuove tecnologie, la riflessione critica sulla produzione e sull’evoluzione dei paradigmi della modernità ci riporta al Reismo del collettivo sloveno OHO Group (1962–1971), che alla fine degli anni Sessanta si scioglieva per non divenire parte di un’élite culturale, e alla circolarità temporale dell’opera omnicomprensiva di Stano Filko (1937 Velka Hradna–2015 Bratislava), che nel 1965 insieme ad Alex Mlynárik e a Zita Kostrová pubblica il manifesto HAPPSOC (Happy Socialism), una sovversiva “azione totale” di immersione dell’arte nelle manifestazioni politiche di Bratislava in tempo-reale, che si evolverà nelle forme di filosofia trascendentale e cosmologia della serie fotografica Transcendency, dove al cogito ergo sum (le teste dei soggetti) Filko sostituiva le forme “eterne e assolute” dei cerchi e dei quadrati.
Dopo la Primavera di Praga del 1968 gli artisti cecoslovacchi furono costretti a operare negli spazi privati, mentre dai centri studenteschi di Lubiana, Zagabria, Novi Sad e Belgrado gli artisti si spinsero fino allo spazio urbano, in cui Nena and Braco Dimitrijevi organizzarono la mostra At the moment (Zagabria, 1972) a cui partecipò anche Giovanni Anselmo e il Gruppo dei Sei Artisti (Group of Six Artists, Zagabria, 1975–1981) interveniva nella Piazza della Repubblica a Zagabria, dopo che un gruppo di artisti dipinse di rosso il pavimento del Peristilio del Palazzo di Diocleziano a Spalato (Red Peristyle, 1968), che venne percepito come atto provocatorio e perseguito come atto vandalico, evidenziando la censura nell’arte pubblica e le contraddizioni del significato stesso di “spazio pubblico” e di site-specificity che sarebbero emersi con forza tredici anni dopo con l’allestimento e la rimozione di Titled Arc di Richard Serra alla Federal Plaza di Manhattan a New York.
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