L’inarchiviabile

Il percorso di elaborazione critica del passato e del nostro rapporto con esso costituisce l’evento inaugurale di FM, Centro per l’Arte Contemporanea presso i Frigoriferi Milanesi, uno dei simboli dello spirito imprenditoriale milanese e luogo di cura e conservazione di cose preziose.

Il 1970, l’anno in cui a Milano Dario Fo fondava La Comune, in Italia si introduceva il divorzio e il colonnello Gheddafi nazionalizzava le compagnie petrolifere in Libia, oggi nuovamente al centro dei conflitti geopolitici nel Mediterraneo, è il punto di partenza del percorso di riscrittura critica della narrazione degli anni Settanta tracciato da Marco Scotini attraverso duecento opere di sessanta artisti provenienti dalle più prestigiose collezioni italiane prodotte fino al 1979, anno di inizio dell’era thatcheriana e dell’ascesa del neoliberismo.
Le forme di autorappresentazione e autodeterminazione dell’intelligenza collettiva come Il desiderio dell’oggetto di Ugo La Pietra (1973), che delega il lavoro sulla città ai suoi abitanti, i Photomatic d’Italia di Franco Vaccari (1972–1973) e l’immagine frontale di migliaia di giovani in un sit-in di protesta in piazzale Loreto di Uliano Lucas (1970), creano un passaggio verso gli spazi dell’“eccedenza” sociale e multidisciplinare dei linguaggi, dei concetti temporali e delle azioni di performatività sociale degli anni Settanta, che sono inarchiviabili perché non catalogabili tra le categorie dell’estetica, e dunque potenzialmente reattivi oltre il proprio tempo.
L'inarchiviabile
In apertura: Giovanni Anselmo, Entrare nell’opera, 1971, tela emulsionata, cm.125 x 180, Collezione Consolandi. Qui sopra: Ugo La Pietra, Il desiderio dell’oggetto, da “Progettare INPIU'”, 1973–75, particolare. Courtesy Archivio Ugo La Pietra
Come Vaccari libera la fototessera dalla sua funzione di strumento di riconoscimento e identificazione per trasformarla in strumento di produzione di esperienza spaziale e di (auto)rappresentazione della moltitudine, la mostra libera l’archivio dalla sua funzione tassonomica per trasformarlo in terreno generativo del potenziale politico dell’inarchiviabile, delineato concettualmente dalla presentificazione ricorrente di Gino De Dominicis, a partire dal Tentativo di Volo (1970). Non a caso la sezione dedicata all’archivio come concetto e pratica di “spostamento” della visione e dell’interpretazione, è aperta dall’impossibile raccolta omnicomprensiva di Insicuro noncurante di Alighero Boetti che redige un elenco enciclopedico dei 1000 fiumi più lunghi del mondo (1965–1975).
Con l’invito al superamento del Secondo principio della Termodinamica (1972) De Dominicis afferma l’uomo nella sua eterna condizione di sistema isolato e perfetto, che al termine della sua trasformazione ciclica torna alle stesse condizioni di partenza. Non a caso la mostra si chiude con la “statua” invisibile di De Dominicis, che neutralizza la pertinenza stessa di una predicazione esistenziale, poiché “il noema fantasmatico ‘è presente’, il soggetto ne è certo e la questione dell’esistenza non si pone neanche o non si pone più” (Herman Parret, 2006).
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Michele Zaza, Dissoluzione e Mimesi, 1974, fotografie, cm. 20x35 cad. Collezione Erminia Di Biase
Nel momento in cui Michele Zaza comprime lo spazio-tempo estendendo la presenza umana fino a farla divenire simultanea e immateriale, poiché gli anni dell'animo umano “stanno tutti simultaneamente, perché sono immobili” (1972), e quando, in occasione dell'allestimento della mostra anti-logica, Michelangelo Pistoletto sostituisce l'opera del ponte in ferro con il suo disegno, perché “è sospeso ma ben ancorato al di qua e al di là sia dell'ostacolo che dell'incognita”(1978), si attiva la dinamica del ritorno ciclico al punto di partenza, ossia alle condizioni esistenziali e temporali odierne.
Lo spazio dedicato al grado zero della rappresentazione, all’aspirazione all'assoluto e alla liberazione dei mezzi espressivi, è lo spazio della misurazione del tempo, come i tredici scatti fotografici che immortalano la successione temporale di Franco Vimercati e le sequenze di Michele Zaza, e del corpo, come le “misure intime” di Icaro, essendo l’uomo effetto di tutte le cause che lo hanno determinato e causa di tutti gli effetti che determina (Salvo, 1971).
Le Verifiche di Ugo Mulas, la Doublure di Giulio Paolini, le tele bianche di Franco Vimercati, il Tutto di Giovanni Anselmo, l’omaggio al rifiuto del lavoro di Duchamp di Ugo Mulas ci guidano verso Mostro. Un esposizione di oggetti non fatti non scelti non presentati da Emilio Prini (1971), l’opera che costituisce l’accesso reale alla mostra dopo il passaggio iniziatico, la porta della galleria Toselli che l’artista ha fatto chiudere per un mese come forma di necessaria sottrazione, poiché l'aggiunta si traduce nella moltiplicazione sociale seriale e ricorsiva degli immigrati e degli operai torinesi come stampe della prima matrice della successione di Fibonacci, nelle Iconografie dei martiri delle idee della mensa di Luciano Fabro e nelle immagini della violenza ideologica di Linguaggio è guerra di Fabio Mauri (1975), collocate a metà tra il film-catalogo su Cesare Lombroso e il film erotico Essence d’absynthe di Gianikian e Ricci Lucchi, nella sezione intitolata Filmare il male, in omaggio a Pier Paolo Pasolini.
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Luciano Fabro, Iconografia (Berenice), 1975, Collezione Viliani
Il retro di una cartolina di De Dominicis ci invita alla mostra Quando non si parla più di immortalità del corpo (Ingresso riservato agli animali) (Galleria De Domizio, 1975) e a guardare al non visibile come possibilità di ridefinizione delle strutture normative, spazio-temporali, cognitive, comportamentali e linguistiche, attraverso le Bariestesie di Gianni Colombo (1974–1975), reazione cinestesica all’uomo-spettatore e il Rivelatore di pause o Pausofono, brevettato da Vincenzo Agnetti, che permette di ascoltare anche il negativo dei suoni, sostituendo l’entità delle pause con un suono fisso (1970). Nello spazio attiguo le anti-penelopi sfidano la norma avanguardista del monopolio maschile della storia dell’arte come processo attraverso le opere di Maria Merz, Irma Blank e Maria Lai fino a giungere alla dis-identificazione dei generi di Marcella Campagnano e Lisetta Carmi, di cui i grafemi indecifrabili di Dadamaino costituiscono il cuore politico.
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Franco Vaccari, Photomatic d'Italia, 1973–74. Photostrips collage on card, cm.50,7x70,2 framed. Courtesy P420, Bologna
“La bellezza non è incompatibile con la rivoluzione” affermava Luigi Nono nel preludio dell’opera lirica Al gran sole carico d’amore dedicata alla Comune di Parigi, presentata al Teatro alla Scala nel 1975. Nell’epoca della terza rivoluzione industriale, in cui le fototessere di Vaccari si sono “evolute” negli identikit sospetti e colpevoli di Laboratorio di Comunicazione Militante e oggi nelle forme di identificazione e di rappresentazione delle moltitudini di migranti che solcano il Mediterraneo, è particolarmente importante interrogarsi sulla struttura tecnico-simbolica di produzione di valori dei processi culturali rivoluzionari. Allo stesso modo è significativo che questo percorso di elaborazione critica del passato e del nostro rapporto con esso costituisca l’evento inaugurale di FM, Centro per l’Arte Contemporanea presso i Frigoriferi Milanesi, uno dei simboli dello spirito imprenditoriale milanese e luogo di cura e conservazione di cose preziose, mentre acquisiscono una centralità istituzionale sempre maggiore i processi di patrimonializzazione della memoria collettiva, che la tutelano ma che al tempo stesso svolgono un ruolo primario nel rafforzamento delle identità culturali come esito di appartenenza territoriale pre-politica.
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